Memento mori: il ricordo della morte tra letteratura e arte

Con memento mori si intendono tutte le espressioni filosofiche, letterarie o artistiche che rimandano alla riflessione sulla caducità della vita e sull’inevitabilità della morte. Partorito dalla filosofia ellenistica, il memento mori assunse poi caratteristiche propriamente romane, a partire dalla lingua in cui questa espressione viene ancora oggi ricordata.

L’orgine dell’espressione memento mori

L’espressione memento mori rimanda al contesto politico/militare tipicamente romano. Secondo una testimonianza di Tertulliano, autore cristiano di II-III sec. d.C., durante i trionfi che i comandanti prima e gli imperatori poi celebravano, partendo dal Campo Marzio per arrivare fino al Campidoglio, uno schiavo – quindi un uomo la cui condizione di vita era esattamente opposta a quella dell’imperatore – sussurrava all’orecchio del trionfatore “Respice post te! Hominem te memento!” (“Guarda dietro di te! Ricordati di essere un uomo!”).

Il memento mori nella lirica greca

Il tema dell’ineluttabilità della morte, nell’antichità greca e romana, fu tuttavia spesso affrontato in contesti (archeologici e letterari) che rimandano al simposio.

L’associazione ossimorica piaceri della vita/consapevolezza della morte fu impostata definitivamente dalla filosofia epicurea, e poi declinata nella formula latina memento mori, ma appartiene al patrimonio letterario greco sin dall’età arcaica, quando i poeti lirici di VII sec. a.C., intenti a comporre poesie per intrattenere i “compagni” (gli hetairoi) di banchetto, ponevano al centro delle loro liriche il tema della caducità della vita.

L’episodio della Cena Trimalchionis

Una versione accuratamente parodiata – con tutti i suoi significati politici – del simposio e degli argomenti ivi affrontati è nel Satyricon di Petronio, in particolar modo nel celeberrimo episodio della Cena Trimalchionis, ambientato in una Graeca urbs – forse Napoli o Pozzuoli.

Il personaggio che vi dà il nome, il ricchissimo liberto Trimalchione, offre un lauto banchetto ai protagonisti, un vero e proprio spettacolo di portate incastonate l’una nell’altra. Nel servire un pregiatissimo Falerno invecchiato cento anni, Trimalchione esclama:

“Ahimè, dunque il vino ha vita più lunga dell’omuncolo. Ma allora inzuppiamoci le budella. E’ la vita, il vino […]”.

Ma non finisce qui: subito dopo entra in scena un servo del padrone, recante per lui “uno scheletrino d’argento con un automatismo tale che le articolazioni e la colonna vertebrale, snodate, potevano flettersi in ogni senso”. Alla vista del giocattolino, Trimalchione continua il suo lamento:

“Ahimè, poveri noi, come si riduce ad un bel nulla, l’omuncolo tutto intero! Così diventeremo tutti, dopo che l’Orco ci avrà rapito. Perciò viviamo la vita, finché siamo vivi e vegeti”.

La larva convivialis tra Egitto e Pompei

Lo scheletrino d’argento servito a Trimalchione esisteva davvero nell’antichità. Esso prendeva il nome di larva convivialis, ed era uno dei numerosi esempi di oggetti-simbolo mostrati nei banchetti, al fine di ricordare agli invitati il termine della vita. Tramite Erodoto (2, 78), ad esempio, sappiamo che gli antichi Egizi esibivano durante i pasti un cadaverino di legno, per di più sistemato nella bara.

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Lo scheletrino coppiere

Lo scheletrino faceva parte di un’iconografia molto impiegata nelle rappresentazioni musive, in particolar modo di I sec. a.C. Il contesto campano, del resto, è molto attento alla lezione epicurea: a Ercolano sorgeva il cenacolo di Filodemo, e a Posillipo Virgilio e Orazio studiarono presso Sirone. Non ci sorprende dunque che molti siano i manufatti di questo tipo provenienti dal nostro territorio.

Un esempio è il cosiddetto “Scheletro coppiere” rinvenuto a Pompei e oggi conservato al Museo Archeologico Nazionale di Napoli: appartenuto quasi sicuramente ad una casa privata (forse la casa delle Vestali, VI, 1, 7), il mosaico era collocato secondo alcuni in un triclinium, proprio la sala in cui si svolgevano i banchetti. Lo stile minimale in bianco e nero andava molto di moda a Pompei alla fine del I sec. d.C., e a quest’epoca deve essere datato il mosaico.

Lo scheletro regge, secondo la sua definizione di “coppiere”, due brocche di vino, dette askoi, un vasellame tipico delle città campane. E’ chiaro, ancora una volta, il collegamento antitetico tra i piaceri dell’esistenza (il vino, in primo luogo, che si consumava durante i simposi) e l’ineluttabilità della fine, un vero e proprio monito agli invitati a cena, poi riassunto nel carpe diem oraziano.

Il mosaico pompeiano del memento mori

Anche un altro mosaico, sempre conservato al Museo Archeologico di Napoli, recupera il tema della morte in relazione al contesto simposiale. Il cosiddetto mosaico del “memento mori”, in secondo stile, proviene anch’esso da Pompei, dalla casa I, 5, 2, una residenza con bottega annessa. Collocato nel triclinium estivo, il mosaico riflette in chiave allegorica il tema – tipico della filosofia ellenistica, in particolar modo epicurea – della caducità della vita e del godimento dei piaceri.

Nella parte alta della composizione, la livella (poi impiegata, come simbolo, anche nella celebre poesia di Totò) termina con l’asse del piombo, che regge il teschio, equivalente della Morte. Sotto il teschio si intravede una farfalla, cioè l’Anima, posta al di sopra di una ruota, allegoria della Fortuna. A destra e a sinistra dei bracci della livella si scorgono, rispettivamente, i simboli della povertà (bisaccia, bastone da mendicante e mantello) e della ricchezza (scettro, porpora – ancora più significativa nel contesto romano – e corona).

Un teschio con le orecchie?

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Il mosaico pompeiano del “memento mori”

Discusso è il significato della presenza delle orecchie, che in realtà, essendo composte da cartilagine, dopo la morte dovrebbero decomporsi.

Alcuni, che leggono nell’iconografia del mosaico una simbologia pre-massonica, collegano le orecchie del mosaico alle orecchie del teschio rinvenuto nella chiesa di Santa Luciella, scorgendo così in questa corrispondenza un rito esoterico di mummificazione che attingerebbe le sue origini sin dall’antico. È invece più plausibile che la presenza dell’orecchio nel mosaico del Museo Archeologico Nazionale vada riallacciata ad una testimonianza trasmessaci da Plinio il Vecchio, il quale, nella sua Naturalis Historia, precisa che la sede della memoria e delle richieste fatte agli dei era posta proprio dietro l’orecchio.

Il tesoro di Boscoreale

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Una delle coppe con gli scheletrini

I reperti antichi che collegano simbolicamente banchetto, piacere e morte non si limitano ai due mosaici pompeiani qui presi in considerazione. Un esempio eccezionale, soprattutto sul piano artistico, è rappresentato dalle coppe d’argento del tesoro di Boscoreale. Benché provenienti anch’essi dal territorio campano, i reperti sono oggi conservati a Parigi.

Due delle coppe, impiegate quindi durante la quotidianità del pasto, presentano in rilievo degli scheletrini: tra i personaggi – ormai ridotti ad ossa – presenti nella prima coppa troviamo Sofocle, il poeta e filosofo Mosco e l’epicureo Zenone; la seconda coppa, invece, ha come protagonisti Euripide, Menandro e il filosofo cinico Monimo. Gli altri scheletri rappresentano l’umanità “comune”.

La decorazione delle coppe, di epoca ellenistica, riflette la concezione epicurea dell’esistenza: una scritta greca incisa recita:

“Godi finché vivi, poiché il domani è incerto. La vita è una commedia, il godimento è il bene supremo, la voluttà il tesoro più prezioso: sii lieto, finché sei in vita”.

Altri scheletri ammoniscono:

“Guarda quelle lugubri ossa, bevi e godi finché puoi: un giorno anche tu sarai così”.

Ancora una volta vino da gustare, senza tuttavia dimenticare il limite estremo che attende ciascuno di noi.

Alessia Amante

Note:

Il testo è tratto dal seminario “La rappresentazione della morte a Napoli: una ricerca in corso…” svoltosi il 12 ottobre 2018 e organizzato da IRIS Fontanelle e FUCIna d’idee.

Bibliografia:

  • A. Aragosti, Petronio: Satyricon (Milano, 1995)
  • E. T. Vermeule, Aspects of death in early Greek art and poetry (Berkeley, 1979)
  • Istituto della Enciclopedia italiana, Pompei: pitture e mosaici (Roma, 1990)

Sitografia:

  • http://www.comune.boscoreale.na.it/pagina2263_il-tesoro-di-boscoreale.html