Il Satyricon di Petronio: la vita e la morte su un palco

Il Satyricon di Petronio è un’opera unica nel suo genere, per stile e forma. Critica feroce dei costumi della Roma del I sec. d.C., il romanzo adotta una strategia “al rovescio” per condannare la società corrotta: non criticarla dall’esterno, ma immergersi in essa per distruggerla dall’interno.

Uno degli aspetti maggiormente approfonditi da Petronio nella sua opera è come la vita sociale si sia ridotta a semplice apparenza e ostentazione, nell’estremo tentativo di celare le vere storture e le grandi paure che affliggono l’uomo romano dell’epoca giulio-claudia. Vivere significa ormai recitare su un palco.

I teatri nelle città del Satyricon

Al di là della corrispondenza vita=teatro che Petronio instaura nel Satyricon, l’opera è una fonte imprescindibile per la conoscenza dei luoghi del teatro e del divertimento nelle città meridionali di origine greca. La storia, com’è risaputo, si apre in una Graeca urbs, quasi sicuramente Pozzuoli, e il narratore Encolpio si sofferma sulla descrizione della città, che comprende un grande anfiteatro.

Anche a conclusione della vicenda, quando Encolpio e Gitone si troveranno a Crotone, il loro occhio cadrà sui numerosi luoghi di dissoluzione e corruzione, come il teatro, dove di moda era il mimo, una rappresentazione muta di un mito accompagnata spesso da movimenti osceni.

Petronio immerge i suoi protagonisti in tali ambienti non per puro caso; Encolpio e Gitone, infatti, sono introdotti in un’ambientazione che “replica” la loro vita. Si potrebbe affermare, cioè, che la vita dei ceti subalterni del I sec. d.C. venga analizzata alla maniera di un mimo: i protagonisti sono gli attori, e si muovono sul palco dell’esistenza nel medesimo modo osceno con cui i professionisti recitavano a teatro.

La cena di Trimalchione

SatyriconTutte le vicende del Satyricon ruotano attorno alla “recitazione” come arma per vincere nel gioco della vita. Partendo dall’inizio del romanzo, indimenticabile è la sezione dedicata alla cena di Trimalchione, liberto che, dopo una vita da schiavo, è riuscito ad accumulare ricchezze inimmaginabili.

La cena che offre ai protagonisti, dunque, è una continua e insistente ostentazione dell’immagine che Trimalchione è riuscito a costruirsi. Portate su portate, cibi che escono da altri cibi, animali cotti che contengono altri animali, bevande a volontà, ori e ricchezze: questa è la farsa che Trimalchione è riuscito a costruire per colmare il vuoto a cui, irrimediabilmente, la sua condizione lo condanna. Lo stesso Encolpio, sconvolto, non può che osservare che quell’insieme di lazzi, risate, oscenità e pianti assomiglia proprio ad un pantomimi chorus.

Recitare per nascondere

Ogni forma di teatro, infatti, per quanto realistica resta pur sempre una farsa, e Petronio lo sa. L’autore, infatti, lascia trapelare qui e lì la reale condizione delle classi subalterne. In una narrazione che finge l’approvazione dell’autore, Petronio, furbamente, svela solo in pochissimi passi ciò che egli intende davvero descrivere. I liberti, gli arricchiti, gli schiavi hanno creato un’immagine, una maschera, nella società del tempo.

Nascosti dietro la corruzione e le ricchezze, essi celano i limiti della loro condizione: la libertà piena, che mai otterranno essendo liberti; l’incapacità di procreare per la loro omosessualità; di conseguenza, la paura della morte, che può essere sconfitta solo con la procreazione.

Quando Trimalchione, tra una risata e l’altra, affronta per un attimo il tema della morte, muove malinconicamente uno scheletrino d’argento sul tavolo, notando come tutte quelle ricchezze spariranno una volta sopraggiunta la morte. Vale dunque la pena vivere per esse, che sono così temporanee?

La “tragedia” amorosa

L’altro campo in cui Petronio associa la vita al teatro è proprio l’esistenza dei protagonisti e le vicende che li riguardano da vicino nel romanzo. Encolpio e Gitone, infatti, sono due amanti, la cui storia è continuamente travagliata da un “terzo incomodo”. Tutte le reazioni scatenate da questi imprevisti amorosi sono degne del più osceno dei pantomimi.

Ogni azione di qualsiasi personaggio è totalmente abbandonata “all’improvvisazione”, ed è dettata dagli impulsi primari, come il sesso, il cibo e la ricchezza. Il passaggio repentino dalle risate ai pianti, da scene di “commedia” a scene di “tragedia” non fa che confermare l’atmosfera teatrale che gravita attorno ai protagonisti.

A metà romanzo, ad esempio, Gitone decide di scappare con il secondo pretendente, Ascilto, e la reazione di Encolpio è teatrale: egli inizia a vagare in lungo e in largo per la città, brandendo un’arma con cui minaccia di uccidere i due traditori.

La mimica mors: la finta morte

A fine romanzo, invece, il “terzo incomodo” diventa Eumolpo, anche lui innamorato di Gitone. Quando Eumolpo tenta di portar via Gitone da Encolpio, quest’ultimo decide di suicidarsi, in un’atmosfera sì drammatica, ma totalmente farsesca e senza credibilità: Encolpio tenta di togliersi la vita con un rasoio nemmeno affilato al posto della “classica” e “tragica” spada. La conferma che la scena altro non sia che una mimica mors è data dallo stesso Petronio poco dopo, quando egli commenta che l’episodio non era stato che un gioco tra amanti.

Il rasoio con cui Encolpio aveva tentato di togliersi la vita ritorna anche successivamente, quando i tre si trovano sulla nave di Lica. Ancora una volta Gitone è conteso da uomini e donne e così, incolpando se stesso delle liti create dalla sua bellezza, decide di evirarsi, seguito poi da Encolpio che di nuovo tenta goffamente di tagliarsi la gola senza successo. Una scena da standing ovation.

Tre attori a Crotone

Le scene potrebbero essere enumerate a decine, ogniqualvolta i due amanti, Encolpio e Gitone, credono di aver perso l’altro, abbandonandosi a pianti e addii degni della miglior tragedia. È necessario, tuttavia, abbandonare il campo amoroso per affrontare l’ultima occasione in cui il teatro torna con forza nel Satyricon.

I tre protagonisti, dopo il naufragio della nave di Lica, approdano a Crotone, città dissoluta e abitata da “cacciatori di eredità”. Eumolpo, così, ha un’idea: si fingerà un vecchio arricchito in fin di vita per attirare tutti questi “servitori” desiderosi di ricevere la sua eredità, e si farà mantenere da loro. La bugia, però, non può durare per sempre: il sospetto che Eumolpo stia recitando è sempre più forte.

Per scampare, così, alla violenza di uomini tanto dissoluti, Eumolpo finge di star per morire, e promette di lasciare l’eredità solo a chi avrà il coraggio di mangiare il suo cadavere. La riprova dell’abiezione di tali individui è che non pochi accettano la condizione fissata da Eumolpo. A questo punto, il romanzo si chiude e, forse, non sapremo mai come i tre riuscirono a scampare anche questo pericolo.

La tecnica del Satyricon

La tecnica narrativa che Petronio adotta nel Satyricon, dunque, è assolutamente geniale. Anziché criticare dall’esterno un mondo che non approva, il senatore lascia che i personaggi parlino da sé, e dimostrino da soli la corruzione a cui sono soggetti. Rendere i protagonisti del romanzo attori di teatro è una scelta straordinaria, che riesce su molti piani.

Facendo “recitare” i suoi personaggi, Petronio fa in modo che essi svelino come su un palco la loro natura e, contemporaneamente, che agiscano alla maniera di meri attoruncoli da farsa, senza spessore e senza psicologia. I liberti, dunque, non solo risulteranno autori delle peggiori oscenità, ma saranno dipinti agli occhi del lettore come maschere senz’anima, senza psicologia, mosse solo dai più bassi istinti.

Petronio, dunque, riesce a ricavare paradossalmente una “lezione” dal pantomimo che tanto andava di moda al suo tempo. Esso sarà pur sempre un genere osceno e non condiviso dalle classi alte, ma proprio per questo può essere “adottato” in un romanzo per far recitare, come su un palcoscenico, gli appartenenti a quelle classi subalterne che un senatore del rango di Petronio reputava causa della corruzione della Roma imperiale.

Alessia Amante