C’era una volta in America, il film sul tempo del desiderio

C’era una volta in America (Once Upon a Time in America) è un film di Sergio Leone del 1984 tratto da The Hoods, romanzo di Harry Grey del 1952.

In C’era una volta in America, il regista narra le avventure di Noodles e dei suoi amici all’interno della malavita organizzata di New York nel periodo tra proibizionismo e post-proibizionismo.

La Trilogia del tempo

Con C’era una volta in America si chiude la cosiddetta Trilogia del tempo di cui fanno parte anche C’era una volta il West (1968) e Giù la testa (1971).

Se con C’era una volta il West Leone già comincia ad allontanarsi dal genere che lo ha reso famoso (gli spaghetti western) per avvicinarsi a un’estetica più classica (le avventure si svolgono, ad esempio, nella Monument Valley in omaggio a John Ford) è con C’era una volta in America che il regista per la prima volta affronta un genere per lui del tutto nuovo: il gangster movie.

Ciò che accomuna le tre pellicole è, ovviamente, la tematica del Tempo: questi tre film non solo si svolgono in un tempo dilatato generando una conseguente lunga durata della pellicola stessa ma, come afferma Morandini, hanno alla loro origine il tempo con la sua vertigine.

«Il presente non esiste: è una sfilata di fantasmi nello spazio incantato della memoria»1

Ulteriori punti in comune con le altre due pellicole sono la splendida colonna sonora di Ennio Morricone e il montaggio di Nino Baragli che di certo hanno contribuito alla sensazione di profondità spazio-temporale che le caratterizzano.

C’era una volta in America, il tempo del desiderio

In questo film è chiaro che il tempo viene scandito dal desiderio, un sentimento che provano a turno tutti i protagonisti. Le azioni vere e proprie avvengono il più delle volte fuori dall’inquadratura quindi è il desiderio alla loro base a venire effettivamente mostrato.

Tanto più il protagonista si ritrova vicino al raggiungimento del proprio obiettivo, tanto più i tempi sembrano dilatarsi con una suspense dal sapore hitchcockiano.

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Bellissima (e significativa) la scena in cui Patsy ha intenzione di pagare le prestazioni sessuali della coetanea Peggy con una Charlotte russa con la panna. Costretto ad aspettare che la ragazza finisca di fare il bagno, però, cede alla tentazione di mangiare il dolce che aveva intenzione di darle. L’attesa non ha aumentato il desiderio ma ha fatto in modo che l’obiettivo cambiasse: il ragazzino ne ha scelto uno più vicino, più immediato e, forse, ugualmente appagante.

Ciò che risulta importante non è quindi l’oggetto del desiderio ma il desiderio stesso.

«Non fare così, finisci subito».

È questa la frase che Peggy ripete a Noodles durante un rapporto sessuale osservato e giudicato dal poliziotto Withey che lo definisce «un ragazzino». Definizione che gli resterà attaccata per tutta la vita: Noodles, proprio come un ragazzino, non riuscirà mai a placare il desiderio di avere tutto e subito. Tant’è che dovrà fare i conti con la violenta irruenza indirizzata a Deborah, la ragazza di cui resterà innamorato per tutta la vita.

C'era una volta in America

L’attesa, anche questa volta è stata lunga («tutta una vita») e sentitosi alle strette perché la ragazza ha degli obiettivi ben precisi e non intende deviarli per rimanergli accanto cede alla pulsione e la violenta. Una violenza che appare interminabile e che Sergio Leone decide di mostrarci senza glissare o romanzare.

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Di fatto Noodles non raggiungerà nessuno dei suoi obiettivi: desidera ricchezza e libertà ma finisce in carcere per dodici anni e impoverito dalla morte degli altri membri del suo gruppo; desidera amare Deborah ma finisce per invecchiare da solo. In ultima analisi si potrebbe affermare che non è riuscito nei suoi intenti proprio perché l’irruenza lo ha allontanato dall’obiettivo.

Il tempo della memoria

C’era una volta in America non può essere rinchiuso in un qualsiasi giudizio estetico soggettivo: si tratta di un film evento che capovolge l’intera esperienza artistica di Sergio Leone ma al tempo stesso getta le basi di quelli che saranno i cardini del cinema postmoderno.

«Questo film sono io. Non sarebbe stato lo stesso se l’avessi girato a quarant’anni perché è un film sulla memoria, sulla solitudine, la morte e il tempo che passa»

– Sergio Leone

Le vicende dei protagonisti vengono raccontate da una cronologia labirintica che non tiene conto di alcun riferimento sicuro (non abbiamo un Totem a cui tenerci, come in Inception, ad esempio) e il presente sembra non essere mai posto in una condizione di superiorità narrativa.

Paradossalmente sono gli oggetti (orologi, fotografie) e i famosissimi primissimi piani tanto cari all’autore che condizionano la narrazione perché carichi di ricordo e di sentimento.

Leone, ispirandosi al romanzo di Harry Grey, riporta alla luce una New York scomparsa insieme a circa cinquant’anni di storia americana e lo fa rievocando Proust e Freud ma al tempo stesso dando uno sguardo alla grande storia del cinema (chiarissimi i parallelismi con Citizen Kane di Orson Welles ma anche con Hiroshima mon amour di Alain Resnais).

c'era una volta in America

Il finale

C’era una volta in America comincia e finisce con la stessa inquadratura (Noodles in una fumeria d’oppio con lo squillo di un telefono come raccordo sonoro).

Il sorriso di Noodles riesce nuovamente a rimettere in crisi un’apparente logicità narrativa che poco prima lo spettatore è riuscito a darsi e riapre la pellicola a nuove e diverse interpretazioni egualmente valide.

Tuttavia, qualunque sia l’interpretazione che ogni spettatore può ritenere appropriata, il senso della pellicola è chiaramente svincolato da essa: il valore epocale di C’era una volta in America sta nell’essersi fatto carico di un nuovo modo di far cinema.

Sergio Leone rifiuta la linearità consequenziale a cui il cinema classico americano è tanto legato e adegua la narrazione al ritmo della memoria, al desiderio, al rimpianto di una vita vissuta guardando sempre troppo avanti.

C'era una volta in America

«C’era una volta in America è soprattutto un film intimista, è uno sguardo sul cinema e su me stesso. Mi interessava essenzialmente mostrare il cinema per quello che mi era apparso nelle sue componenti, lo spettacolo innanzitutto, il godimento, l’illusione, il riflesso, la ripetizione fatale delle scene madri, lo sguardo e il gioco. Mi piace lasciare allo spettatore aperta la possibilità del dubbio, di fargli credere che una cosa può essere interpretata in una maniera e in un’altra. Forse anche per questo ho voluto sempre ricercare uno spunto, per contrasto, proprio dall’America, un mondo che spesso, anche convenzionalmente è stato considerato ingenuo e fanciullesco»

Sergio Leone

Cira Pinto

Bibliografia essenziale:

1IlMorandini, Morando Morandini e Laura Morandini, 1998, Bologna.