Tredici – TH1RTEEN R3ASONS WHY, la recensione

La prima stagione di Tredici – TH1RTEEN R3ASONS WHY (di Brian Yorkey, basata sul romanzo 13 di Jay Asher) ha esordito il 31 marzo sulla piattaforma Netflix e, dato l’immediato successo, la serie è stata rinnovata per una seconda stagione.

Trama: Hannah Baker si è suicidata e ha registrato su sette audio cassette i tredici motivi per cui lo ha fatto, uno per ogni lato di ogni cassetta e uno per ogni persona che ha tradito la sua fiducia.

«Ciao, sono Hannah. Hannah Baker. Esatto. Non smanettate su qualunque cosa stiate usando per ascoltare. Sono io. In diretta e stereo. Nessuna replica, nessun bis e questa volta assolutamente nessuna richiesta. Mangia qualcosa e mettiti comodo, perché sto per raccontarti la storia della mia vita. Anzi, più esattamente, il motivo per cui è finita. E se tu hai queste cassette, è perche sei uno dei motivi»

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Tredici, una diversa forma di serialità

Come in molte delle serie rese disponibili da Netflix, anche per questa, per una corretta analisi, si deve necessariamente prestare attenzione alla particolare modalità con cui la trama è articolata attraverso gli episodi: il turning point c’è già stato e gli spettatori, così come i protagonisti, non hanno modo di viverlo in prima persona (se non attraverso una ricostruzione indotta).

Alla base di questa struttura c’è una diversa idea di serialità: in Tredici c’è una macro storia che si articola attraverso gli episodi, già subito tutti disponibili e strettamente interconnessi.

Con ciò viene meno quella struttura narrativa che abbraccia anche un lungo arco temporale (quello dei protagonisti ma anche quello dello spettatore) e si fa avanti l’idea di “un’immersione”, molto più simile a quella che avviene al cinema.

Altra importante caratteristica è che i protagonisti non sono attanti perché, come si è già detto, i fatti sono già accaduti e Clay (la nostra guida lungo i tredici episodi) è il veggente: ascolta le cassette e “vede” ciò che ha vissuto Hannah (la ferita sull’occhio destro – insieme alla color correction – serve proprio a far comprendere allo spettatore quando Clay è in una “ricostruzione”).

 

Un passato da riavvolgere

Hannah Baker si è tolta la vita, è questo il punto di partenza, e decide di rispondere lei stessa alla domanda “perché?” affidando la propria voce e la propria sofferenza a un registratore a cassette.

Il fatto stesso che abbia scelto proprio questo mezzo è indicativo (come lo è il suo stesso nome, un palindromo): la verità non può essere univoca, ma ha un doppio volto ed è riavvolgibile e riscrivibile.

Ed è forse proprio questo il fulcro attorno al quale si sviluppano i tredici episodi: la verità raccontata da Hannah può non essere quella vissuta da Jessica, da Alex o da Clay.

Lo dice lei stessa: «forse nemmeno credevate di farmi così male».

Tutti i personaggi che vengono incolpati da Hannah (per aver fatto o non aver fatto determinate cose) hanno delle sfumature, ognuno, a modo suo, soffre per qualcosa. Ciò che li accumuna è un senso di mancanza, una profonda solitudine, e non è un caso che è proprio Bryce Walker (il personaggio più dichiaratamente negativo) quello a cui manca totalmente una presenza genitoriale: la loro assenza, fisica e spirituale, viene anche sottolineata più volte.

È per questa complessità che, al termine della visione, lo spettatore non riesce a trovare un vero e proprio colpevole: tutti sono al tempo stesso colpevoli e innocenti, lo è la stessa Hannah quando ammette di non essere stata in grado di aiutare l’amica.

Il suo suicidio non si presenta, quindi, come un percorso cumulativo di eventi (il dispiegamento delle 13 ragioni non segue un ragionamento matematico); non esiste un episodio più grave dell’altro né ci si può erigere a giudice univoco e giudicare della morte di Hannah Baker.

Il percorso fatto da Hannah, infatti, non ha un senso verticale e cumulativo ma è da intendersi in senso orizzontale, rizomatico: non vi è un punto di entrata o di uscita ma tutto ha un senso e un sapore quasi circolare, proprio come viene indicato nello schema cartaceo fatto da lei stessa prima delle registrazioni.

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Ed ecco che torna la centralità della scelta dell’audiocassetta come strumento meccanico per riportare in vita qualcuno che non c’è più, attraverso il ricordo (così come fa Christian, il protagonista di Moulin Rouge! di Baz Luhrmann): le cassette, nel loro riavvolgersi, danno malinconicamente corpo a Hannah.

Le audiocassette, indicate come qualcosa di passato, e gli Ultravox (con Vienna) sono le uniche forme di “preparazione” che ha lo spettatore prima della scena del suicidio: priva di qualsiasi filtro (così come non lo sono state le scene di stupro) e brutalmente scandita dalle parole di Clay.

«È morta da sola» è questo il punto focale: Hannah ha deciso di morire perché ha sofferto di una profonda forma di disperazione che nessuno ha voluto o ha saputo comprendere.

 

Cira Pinto

Link colonna sonora: Link1

Link libro Jay Asher: Link2