L’asincronismo, il detto e il mostrato al cinema

L’asincronismo è la mancata coincidenza tra l’immagine e il suono. Esso evidenzia ancora una volta evidenziare la differenza tra cinema e teatro.

Antefatto: le parole al cinema

Il 6 agosto del 1926 viene proiettato Don Giovanni e Lucrezia Borgia di Alan Crosland, il primo film con musica registrata. Il suono irrompe al cinema[1]. parole

Nonostante la crisi economica dovuta al crollo della borsa di Wall Street, l’introduzione del sonoro coincide essenzialmente con un periodo di forte espansione produttiva dell’industria cinematografica hollywoodiana. Il suono (nel senso di una composizione organica di rumori, parole e musiche sia diegetici che extradiegetici) ha il grosso potenziale di poter essere un fattore di perfezionamento del lavoro volto a ottenere una massima illusione di realtà (meccanismo che è alla base dei processi produttivi del cinema hollywoodiano classico).

Tuttavia, l’avvento del sonoro al cinema non può non destare sospetti e richiamare l’attenzione anche del mondo teorico. Il sonoro, di fatto, potrebbe mettere in crisi le potenzialità espressive che aveva raggiunto il montaggio.

Nel 1928, Ejzenstein, Pudovkin e Alexandrov pubblicano il Manifesto dell’asincronismo.

Il Manifesto è un breve testo che diventerà un punto di riferimento per il dibattito estetico e teorico che di lì a poco si svilupperà in Europa.

Il suono viene definito dai tre cineasti come «un’invenzione a doppio taglio»[2], il pericolo di un utilizzo commerciale di tale invenzione è dietro l’angolo:

«In primo luogo ci sarà l’utilizzazione commerciale della merce più richiesta, i film parlati, nei quali la registrazione del suono avviene sul piano naturalistico, coincidendo esattamente con il movimento sullo schermo e creando una certa illusione di persone che parlano, di oggetti che risuonano ecc. Questo primo periodo, basato su effetti a sensazione, non nuocerà allo sviluppo della nuova arte, ma sarà terribile il secondo […] con l’affermarsi di un’epoca di utilizzazione automatica del sonoro per drammi di alta cultura e altre rappresentazioni di un tipo teatrale semplicemente fotografate. Il suono così utilizzato distruggerà la cultura del montaggio.»

Di fatto, un utilizzo sconsiderato del sonoro può nuocere al montaggio che, fino ad allora, si era dimostrato essere il mezzo fondamentale con il quale il cinema può raggiungere livelli espressivi molto alti.

Nello stesso testo, tuttavia, gli autori indicano una via d’uscita: l’asincronismo.

«Soltanto l’impiego contrappuntistico del suono rispetto all’immagine offre possibilità di nuove e più perfette forme di montaggio.»

L’asincronismo è la mancata coincidenza tra l’immagine e il suono e, proprio attraverso un uso contrappuntistico del suono rispetto all’immagine si può ancora una volta evidenziare la differenza tra cinema e teatro (e ampliare l’impatto emotivo sugli spettatori).

Il detto e il mostrato

Dei tre elementi su cui si fonda il suono al cinema, la voce è indubbiamente quello che assume il ruolo di primo piano: essa si mette in evidenza rispetto a tutti gli altri suoni.

La voce assume un ruolo centrale in quanto è il supporto delle espressioni verbali, delle parole. Il cinema è verbo-centrista, come scrive Chion, esso tratta la realtà profilmica in modo dinamico.

Il rapporto tra le parole e le immagini può essere espresso attraverso una distinzione riguardante la quantità delle informazioni enunciate:

–      La parola dice di più di quel che dicono le immagini;

–      La parola dice (più o meno) quel che dicono le immagini;

–      La parola dice meno di quel che dicono le immagini.

Una seconda distinzione potrebbe invece riguardare la qualità dell’informazione:

–      Immagini e parole dicono la stessa cosa;

–      Immagini e parole dicono cose differenti.

Jules e Jim (F. Truffaut – 1961) comincia con una serie di immagini dei due protagonisti maschili, accompagnate da una musica allegra e vivace che è in grado di esplicare perfettamente i caratteri dei due ragazzi e il contenuto delle immagini è evidentemente teso a sottolineare il loro legame. Tuttavia, terminati i titoli di testa, una voce narrante extradiegetica si sovrappone alle immagini riprendendo la pagina del romanzo di Henry-Pierre Roché (da cui il film è tratto).

http://www.dailymotion.com/video/x2f0os7_jules-e-jim_shortfilms

Immagini e parole hanno la possibilità, quindi, se coordinate in un determinato modo, di veicolare un duplice racconto (che ha spesso anche un’identità temporale differente). A questo punto il montaggio si appropria dello strumento sonoro (che, come abbiamo ricordato prima agli inizi era stato visto come uno strumento pericoloso per il montaggio stesso) e amplia le proprie capacità espressive. Anche questa volta il senso è dato da uno scarto, da un corto circuito che è in grado suggerire allo spettatore un contenuto\concetto molto più complesso.

In Hiroshima mon amour (Alain Resnais – 1958), mentre le immagini ritornano all’incontro della protagonista francese con il soldato tedesco, il sonoro rimane quello della situazione presente nel quale il ricordo prende vita creando così un duplice orizzonte temporale. Nel film di Resnais (che si avvale della meravigliosa sceneggiatura di Marguerite Duras) le sovrapposizioni (temporali e spaziali) suggeriscono una continuità dello stato di coscienza, nel quale queste sovrapposizioni costituiscono la chiave di lettura per sentimenti e istinti.

parole asincronismo cinema

È un film che mette in luce la grande contraddizione che ci rende propriamente umani: la volontà e il dovere di ricordare, ma la necessità di dimenticare per sopravvivere[3].

A million memories in the trees and sands, oh no

How can I ever let them go?

–      Hiroshima Mon Amour – Ultravox[4]

Il silenzio della sceneggiatura

Il linguaggio è una proiezione del pensiero retrostante, ne è una traduzione. Spesso tale traduzione è un tradimento a livello contenutistico perché il linguaggio ha qualità determinanti e delimitanti (essendo uno strumento di passaggio dall’universale – che sarebbe altrimenti inesprimibile – al particolare).

Il cinema si fa nuovamente carico di uno scarto, non più solo tra l’immagine e le parole, ma tra le parole e il silenzio.

In Lost in Translation (Sofia Coppola – 2003) la traduzione è multipla: ad essere oggetto di una traduzione traditrice non sono solo i protagonisti, ma vi è anche una traduzione fatta dagli stessi protagonisti ai residenti del quartiere di Shibuya (li si osserva nella banalità dei gesti quotidiani che suscitano interpretazioni cariche di stereotipi e di luoghi comuni: «perché i giapponesi non pronunciano la erre?»).

La macchina da presa fruga teneramente negli sguardi di intesa che si scambiano Bob (Bill Murray) e Charlotte (Scarlett Johansson) che hanno in comune una vita fatta di assenze e di insoddisfazioni, scaturite dalla costante incomprensione dei loro sentimenti. Nel finale il linguaggio vocale diviene gestuale, un linguaggio fatto di sguardi e di carezze; gesti intimi e carichi di promesse e di speranze.

Il cinema che si fa muto per assolvere al compito che più degli altri gli spetta: essere portatore della voce dell’anima, dei sentimenti e dei desideri reconditi.

Le parole sono al di là dell’immagine, negli occhi e nello sguardo dello spettatore.

Cira Pinto

Bibliografia essenziale:

–      Introduzione alla storia del cinema, P. Bertetto.

–      Manuale del film, G. Rondolino – D. Tomasi.

–      S.M. Ejzenštejn, La forma cinematografica.

–      M. Chion, Audiovisione.

[1] Ma il primo film all-talkie è del 1928: The Lights of New York di Bryan Foy.
[2] Manifesto dell’asincronismo, in S.M. Ejzenštejn, La forma cinematografica.
[3] Interessanti sono le letture fatte da Nietzsche e da Marcuse al fenomeno della dimenticanza. Per maggiori informazioni si consiglia la lettura della seconda inattuale (L’utilità e il danno della storia per la vita) di Nietzsche e di Eros e civiltà di Marcuse.
[4] Apparentemente la canzone degli Ultravox appare legata alla pellicola di Resnais, tuttavia, pur essendo anch’essa evocativa e legata ai processi della memoria, Foxx dichiara che al momento della stesura non aveva ancora visto la pellicola.  Note interne al booklet della ristampa del 2006 dell’album Ha! Ha! Ha!