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La vegetariana di Han Kang: carne e violenza

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Han Kang, autrice sudcoreana pubblicata in Italia da Adelphi, è la vincitrice del Man Booker Prize del 2016 con il suo romanzo, La vegetariana. Classe 1970, figlia d’arte, Han Kang ha collezionato una serie di premi letterari dal 2005, fino a raggiungere anche l’Occidente.

La vegetariana: cultura e cibo

Il cibo riveste un ruolo importante nelle culture asiatiche. Preparare un pasto non è solo un compito da svolgere, ma è anche un vero e proprio esercizio della cura di sé. Le culture asiatiche ci insegnano di pasti semplici, ma dai colori variegati, integrati dei principali nutrienti necessari alla dieta umana. I grandi esclusi sono soprattutto il latte e i suoi derivati.

Ingredienti principali della cucina coreana sono il riso, le verdure e la carne. Questi tre basilari alimenti possono combinarsi in un’infinità di piatti saporiti, talvolta facili e veloci da preparare. I cereali, poi, sono quasi il primo motore immobile della cucina coreana; tanto che la cultura coreana associa i suoi miti di fondazione ai cereali. La carne (di manzo, pollo, maiale e – ebbene sì – cane) è poi un ricco nutrimento, cui non si può rinunciare.

È in questo fertile solco che Han Kang ha gettato il seme della sua storia. La protagonista de La vegetariana, Yeong-hye, si sottrae al consumo della carne. Diventa, appunto, vegetariana, senza dare alcuna spiegazione di sorta alle persone che la circondano. Anche il lettore è privato della scoperta delle motivazioni di Yeong-hye: proprio come nella storia, nella narrazione la vegetariana è ridotta al mutismo, se non per un sogno raccapricciante cui ci è concesso di assistere come a un film dell’orrore.

La scelta della vegetariana è muta e irreversibile ed ha effetti devastanti sul suo corpo. La sua diventa ben presto un’emarginazione totale dalla società. I suoi familiari non riescono ad accettare né comprendere la sua scelta: e del resto Yeong-hye si rifiuta di spiegare.

Il corpo della vegetariana

Quando si ha modo di riflettere su questo testo estremamente ermetico, si riesce a intravedere che il racconto di Han Kang è una metafora sulla carne e la violenza.

Yeong-hye rinuncia a mangiare la carne, ma la sua scelta è talmente radicale che il suo percorso si compie nella rinuncia a tutto il cibo. Il sogno di Yeong-hye, l’incubo che conosciamo come unica motivazione dietro il suo rifiuto della vita umana, è un sogno di violenza.

È proprio un cane la vittima: il sogno non è altro che un ricordo dell’infanzia di povertà di Yeong-hye. Yeong-hye viene morsa da quel cane dopo averlo infastidito; per questo, il cane viene punito e brutalmente ammazzato. La comunità ne gioisce perché può nutrirsi della sua carne. Sulla psiche della vegetariana è impresso il segno del sangue e della violenza.

Yeong-hye rinuncia alla violenza, rinuncia al corpo. È estranea alla realtà carnale umana. Il suo racconto è narrato da tre personaggi vicini a lei: suo marito, suo cognato e sua sorella. Scorgiamo nei loro rapporti una freddezza, una distanza, e infine soprattutto violenza. Il corpo di Yeong-hye viene abusato dal marito, che la stupra, pezzo di carne freddo e immobile; suo cognato si approfitta di lei, la dipinge come una natura viva e rigogliosa. Yeong-hye diventa oggetto di una piéce artistica in video, sebbene continui a non rispondere alle sollecitazioni esterne.

Yeong-hye è semplicemente oltre l’umano. I fiori che il cognato le dipinge sul corpo sono una prefigurazione del significato finale del romanzo. Yeong-hye smette di nutrirsi dopo l’incontro nello studio del cognato; viene rinchiusa in una clinica psichiatrica, da cui fugge, quando ormai sembra a malapena in grado di respirare, per cercare riparo nella foresta, sotto la pioggia.

È proprio la sorella che immagina la congiunzione finale di Yeong-hye con la natura: Yeong-hye si fa, finalmente, albero; diventa parte della foresta. È impossibile, da italiani, non individuare in questo finale un immaginario dannunziano a noi molto noto:

piove su i nostri volti silvani,

piove su le nostre mani ignude,

su i nostri vestimenti leggieri,

su i freschi pensieri

che l’anima schiude novella,

su la favola bella che ieri

t’illuse, che oggi m’illude,

o Ermione.

[…]

E immersi noi siam nello spirto silvestre,

d’arborea vita viventi;

e il tuo volto ebro

è molle di pioggia

come una foglia,

e le tue chiome

auliscono come

le chiare ginestre,

o creatura terrestre

che hai nome Ermione.

 

La vegetariana: potere e violenza

Yeong-hye in definitiva scappa dalla violenza; e lo fa nell’unico modo cui le sembra di poter accedere, rinunciando alla carne e poi al cibo, dunque rinunciando a ciò che la lega alla materia.

Se la pratica ascetica di molte religioni e filosofie prevede il vegetarianesimo e il digiuno, Yeong-hye è molto più vicina a questa istanza culturale che a una ricerca di una punizione per espiare le sue colpe. Non è anoressica, non cerca la morte, né di farsi del male. Certo, Yeong-hye prova ancora la colpa, ma la sua è soprattutto una ricerca di evasione dal corpo. La vegetariana vuole smettere di essere costretta dalla carne, che è soltanto oggetto di dolore e sopruso. In una società in cui Yeong-hye può essere impunemente picchiata dal padre e stuprata dal marito, la vegetariana sceglie una strada che le permetta di raggiungere un altro stato di esistenza, uno stato d’esistenza che sia privo di sopraffazione e sia vegetale, statico, fermo. Sicuro.

Oriana Mortale

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Oriana Mortale

21 anni. Appassionata di letteratura, studia lettere classiche alla Federico II di Napoli. Scrive furiosamente dalla seconda media (bisogna immaginarla per sempre come San Girolamo nel quadro di Caravaggio).

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