Di thriller, ormai, è pieno il mondo. E lo era anche nell’anno duemila, quando Christopher Nolan sbarca al cinema con il suo secondo film: Memento. E nel mondo del cinema giallo o si ha la certezza di avere tra le mani una trama vincente oppure si rischia di scadere nella solita banalità di esclamazioni classiche del tipo “è stato il maggiordomo!”. Un cult.
Ma il giovanissimo Nolan sicuramente non deve la sua fama a cattive dicerie: esperto nello scavare avidamente nei reconditi angoli della mente umana, appassionato non solo di ciò che la costituisce ma anche del mondo in cui è costretta ad agire, promotore sfegatato della teoria secondo la quale il tempo è solo qualcosa di relativo e di non condizionante, il secondo film della sua carriera è il manifesto di tutto ciò che sarà poi il percorso futuro del regista. Memento non è un film che si può fare dal nulla. E soprattutto non è un film che può essere visto -e capito- da chiunque. Memento è quel tipo di pellicola che ti prende in giro, un gioco di logica che non sai mai se riuscirai a vincere. Memento è uno di quei film che si fanno dopo dieci anni di carriera e altrettanti riconoscimenti. Non si spiega come questo ragazzino di soli trent’anni abbia potuto sfornare dalla sua macchina da presa un simile capolavoro. Eppure c’è riuscito.
Tratto dal racconto Memento Mori di suo fratello Jonathan, racconta la storia di un uomo, Leonard Shelby (interpretato da
Ma, così, sarebbe troppo semplice. Il film è narrato in prima persona da un uomo che non ricorda ciò che è avvenuto prima dell’azione che sta compiendo e probabilmente non ricorda neanche quando ha iniziato a compierla, col risultato di scene sconnesse che sono soltanto la punta dell’iceberg rispetto a una trama che è tutta da ricostruire.
Il montaggio del film procede su due binari: le scene che si susseguono sono alternativamente l’ultima in ordine cronologico, poi la prima, poi la penultima, poi la seconda, e così via. La scena finale del film è quindi quella cronologicamente centrale, che rappresenta il punto di scioglimento dell’intreccio. L’occhio della cinepresa è quello del protagonista, e lo spettatore stesso si sente spaesato perchè catapultato all’interno di eventi che non hanno un vero e proprio motore iniziale. Probabilmente il significato è sempre lo stesso: la necessità umana di ancorare la vita a una successione temporale di eventi, e la condizione di un uomo che ha dovuto fare a meno di questa certezza.
Qualche aiuto Nolan ce lo fornisce, come una differenza cromatica -le scene in bianco e nero riguardano ciò che è avvenuto prima dell’incidente, quelle a colori no, per poi fondersi nella scena finale che unisce le due linee cronologiche-, ma tutto viene confuso dallo stesso protagonista nel suo percorso di autosabotaggio nello scoprire la verità. Un uomo che ha tentato di dare uno scopo alla sua vita ormai distrutta, ossessionato a tal punto da renderlo un facile assassino per chiunque abbia bisogno di uccidere una persona.
Un film che poteva essere una trappola troppo facile in cui cadere, il classico sforzo di regia in cui il montaggio supera la trama. E invece Nolan è riuscito a creare un legame inscindibile tra le due, tanto che l’una non ha senso senza l’altra. Un film ben fatto a trecentosessanta gradi, insomma. Il primo di una lunga serie -si può dire quando si parla di questo regista!-, al quale è seguito Insomnia (con Al Pacino e Robin Williams, mica roba da poco), un altrettanto splendido The Prestige, un intricato Inception, passando attraverso il successo di Batman Begins. Una filmografia che non può altro che confermargli il ruolo di incontro tra Tarantino e Hitchcock che tante volte gli è stato attribuito: esperto esploratore della mente umana che non si limita a guardarla da dentro, ma a proiettarla fuori.
Camilla Ruffo