La questione palestinese: le origini e gli sviluppi

La questione palestinese è un nodo della storia contemporanea, che ha effetti sulle politiche mondiali attuali. Ma cos’è nello specifico? Quali sono le sue origini? In questo articolo spiegheremo come nasce, i suoi sviluppi e qual è la situazione attuale.

Che significa “questione palestinese”?

Quando si parla di “questione palestinese“, ci si riferisce ai conflitti tra il popolo palestinese e il popolo israeliano. Già dalla fine del XIX secolo, il territorio situato tra il Mediterraneo orientale e il fiume Giordano era oggetto di rivendicazioni politiche dei nazionalisti ebrei e i nazionalisti palestinesi. Le rivendicazioni sono poi sfociate in scontri violenti tra i due popoli.

Le origini della questione palestinese

Il dominio egiziano

Le premesse per la nascita della questione palestinese ci furono già all’inizio del XIX secolo. In quel periodo, la Palestina era sotto il controllo dell’Impero Ottomano ed era occupata da notabili, commercianti e tribù agricole. La maggior parte della popolazione era di origine araba e di fede musulmana, ma c’erano anche piccole percentuali di cristiani ed ebrei.

Inizialmente, i rapporti tra di loro erano pacifici, fino a quando la Palestina fu sottratta dall’occupazione ottomana dagli egiziani. Infatti, il governatore Ibrahim riconobbe l’uguaglianza legale alle minoranze e allo stesso tempo introdusse la leva obbligatoria per i musulmani, escludendola ai cristiani e agli ebrei. Questo fece peggiorare la relazione tra i musulmani, i cristiani e gli ebrei e fece scoppiare una rivolta anti-egiziana nel 1834.

La riconquista ottomana

Nel 1840, gli Ottomani riconquistarono la Palestina, ma mantennero le decisioni politiche prese dal governatore egiziano. La svolta, però, ci fu con l’introduzione della riforma fondiaria del 1858 e del 1867. La legge fondiaria del 1858 imponeva la registrazione dell’appartenenza di ogni proprietà a un individuo, che si occupava poi del pagamento della tassa fondiaria. Però, i contadini palestinesi non riuscivano a pagare la tassa di registrazione, dunque preferirono lasciare la registrazione delle terre ai notabili. La legge del 1867, invece, estese il diritto di registrare le terre anche agli stranieri residenti in Palestina.

Tra i nuovi latifondisti stranieri, ci fu il banchiere francese Edmond de Rothschild che acquistò 25mila ettari di terra, regalandoli all’Associazione per la colonizzazione ebraica. Nel 1882, inoltre, ci fu la fondazione del primo insediamento agricolo ebraico da parte del movimento religioso Bilu. Lo scopo di questo movimento era trasformare il lavoro agricolo in uno Stato ebraico in Palestina.

L’immigrazione ebraica e la nascita del movimento sionista

La vera causa dell’immigrazione ebraica in Palestina fu l’inizio di pogrom (in russo “devastazione”) antiebraici negli anni 1881-1884 in Russia, patri di molti ebrei. I pogrom provocarono l’emigrazione di due milioni di ebrei verso gli Stati Uniti e la Palestina. Lì gli ebrei acquistarono molte terre, generando preoccupazione tra le famiglie di notabili palestinesi.

Nel 1897 nacque l’Organizzazione sionista mondiale, la quale fondò il Fondo nazionale ebraico per l’acquisto delle terre in Palestina. Le idee e i movimenti per l’emancipazione degli ebrei dalle discriminazioni di cui erano vittime in Europa nacquero nella Russia zarista. Tuttavia, fu l’ebreo austriaco Theodor Herzl a teorizzare l’idea che per l’emancipazione degli ebrei fosse necessaria la creazione di un loro Stato, in Palestina, terra d’origine del Regno d’Israele.

La nascita del nazionalismo palestinese

Fino al 1914, tutto il territorio ottomano visse un’intensa modernizzazione, sia dal punto di vista politico, ma anche dal punto di vista sociale. In Palestina, infatti, nacque una nuova élite commerciale e la società palestinese assunse un nuovo aspetto. Le nuove forze sociali diedero un grande contributo alla nascita di idee nazionaliste tra la popolazione palestinese, portando alla nascita del movimento nazionalista palestinese antisionista.

Le tensioni tra il nazionalismo palestinese e il nazionalismo ebraico aumentarono con la seconda ondata di immigrati ebrei provenienti dalla Russia, decisi a realizzare lo scopo dell’OSM. Nel 1914, in Palestina vi erano 44 insediamenti ebraici che possedevano 100mila acri di terra. Quindi, rispetto al 1882, la presenza di ebrei in Palestina era raddoppiata.

Il mandato britannico

Durante la Prima guerra mondiale, dal 1915, gli inglesi iniziarono a negoziare con i francesi un’intesa segreta, nota come l’accordo Sykes-Picot. L’accordo riguardava la spartizione, tra i due paesi che l’hanno firmato, delle province ottomane. Per quanto riguarda la Palestina, l’accordo prevedeva un condominio tra Russia, Francia e Gran Bretagna.

Tuttavia, gli inglesi erano decisi a occupare totalmente la Palestina per proteggere i loro interessi strategici. Infatti, la Palestina era un ottimo collegamento tra il Mediterraneo e le altre zone d’influenza britannica (Iraq e Penisola araba). Dunque, gli inglesi adottarono nel 1917 la Dichiarazione Balfour, cioè una lettera con la quale il ministro degli Esteri britannico informava il capo del movimento sionista inglese che il governo era favorevole alla creazione di una nazione ebraica in Palestina. Questa dichiarazione fu, poi, incorporata al Trattato di Sèvres e al testo del mandato britannico.

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Mappa della Palestina mandataria.

I primi scontri

Nei primi anni del mandato britannico, i flussi migratori di ebrei dall’Europa orientale verso la Palestina furono consistenti. Nel 1929, la disputa sull’accesso alla zona del Muro del Pianto a Gerusalemme si riaccese e ciò provocò il primo importante scontro tra ebrei e palestinesi. In risposta, i Britannici crearono nel 1930 una Commissione sugli “arabi senza terra”, con lo scopo di decidere le compensazioni per i contadini rimasti senza terra. Tuttavia, le compensazioni offerte furono poche.

Nei primi anni ’30, nacquero diversi partiti palestinesi, come il partito dei notabili oppure il partito di massa Istiqlal. I partiti chiesero più volte ai Britannici di mettere un freno all’immigrazione sionista e alla vendita di terre agli ebrei. Nonostante ciò, l’immigrazione non si fermò, e questo portò allo scoppio di una rivolta nel 1936. Per la prima volta, gli scontri furono coordinati anche da un’azione politica. Lo scopo dei partiti palestinesi era quello di porre delle richieste ai Britannici indicendo uno sciopero generale.

Alla fine del 1936, la rivolta si placò grazie all’intervento degli altri Paesi arabi. Intanto, nacque la Commissione d’inchiesta Peel con lo scopo di indagare sulle cause della rivolta e sui possibili rimedi. Il rapporto della Commissione dichiarò insostenibile il mandato e propose la divisione della Palestina in due Stati: uno Stato ebraico e uno Stato palestinese. Tuttavia, i Palestinesi rifiutarono questa proposta, mentre gli Ebrei accettarono.

Dopo il rapporto Peel, la rivolta riprese e divenne molto più violenta. La ribellione palestinese non riuscì, però, a cambiare le sorti del mandato britannico e dell’espansione dell’insediamento sionista. Al contrario, gli scontri provocarono enormi danni ai palestinesi.

La decisione dell’Onu sulla questione palestinese

Dopo la Seconda guerra mondiale, nel 1947, la Gran Bretagna decise di rimettere il mandato sulla Palestina all’Onu. Nello stesso anno, l’Onu istituì un Comitato speciale sulla Palestina, che produsse due rapporti, uno di maggioranza e uno di minoranza. Quello di maggioranza prevedeva la creazione di tre nuovi stati, uno Stato palestinese, uno Stato ebraico e una zona sotto il controllo internazionale a Gerusalemme. Il rapporto di minoranza, invece, proponeva la creazione di un unico Stato federale.

Alla fine del 1947, l’Onu adottò con la risoluzione 181 una revisione del rapporto di maggioranza. Quindi, la risoluzione prevedeva la divisione della Palestina in otto zone: tre per gli ebrei, quattro per i palestinesi e una per Gerusalemme. Il piano assegnava il 56,47% del territorio allo Stato ebraico, il 42,88% allo Stato palestinese e lo 0,65% a Gerusalemme. Questa risoluzione, però, non è stata considerata equa e praticabile, poiché assegnava il territorio più ampio a una minoranza che rappresentava solo il 33% della popolazione.

Ebrei e Palestinesi ebbero reazioni diverse all’adozione della risoluzione: mentre gli ebrei festeggiarono e si prepararono per realizzare la spartizione, i palestinesi iniziarono una rivolta che sfociò in scontri violenti tra le due comunità. Presto, gli scontri si trasformarono in una guerra civile tra ebrei e palestinesi che durò da novembre del ’47 a maggio del ’48. Il punto di svolta per gli ebrei fu l’applicazione del Piano Dalet. Il piano prevedeva l’evacuazione dei villaggi palestinesi dal territorio assegnato ai sionisti. Nel maggio del ’48, 300mila palestinesi lasciarono lo Stato ebraico, allontanati con la forza.

La prima guerra arabo-israeliana

Il 14 maggio del 1948 i leader sionisti proclamarono l’indipendenza dello Stato di Israele, subito riconosciuta da Stati Uniti e Unione Sovietica. Dopo di ciò, gli altri Paesi arabi decisero di prendere le difese del popolo palestinese; dunque, entrarono in Palestina con i loro eserciti. Tuttavia, gli altri eserciti arabi entrarono in guerra con Israele con riluttanza, senza coordinarsi tra di loro e senza mettere in primo piano gli interessi dei palestinesi.

La prima guerra arabo-israeliana si svolse in quattro fasi, intervallate da tregue imposte dall’Onu. Nella prima fase (15 maggio-11 giugno 1948) c’era un equilibrio nel quale gli israeliani riuscirono a fermare l’avanzata araba. Durante la seconda fase (8 luglio-18 luglio) gli israeliani conquistarono tutta la parte della Galilea assegnata allo Stato palestinese e respinsero gli arabi. Nella terza fase (ottobre 1948) Israele attaccò l’Egitto e ci fu una terza tregua. Nell’ultima fase (dicembre 1948-marzo 1949) Israele minacciò il Sinai egiziano.

Nel marzo del ’49, gli Americani intervennero nel conflitto per paura che potesse subire un allargamento e imposero la fine della guerra. Alla fine del conflitto, Israele aveva annesso il 24% del territorio assegnato allo Stato palestinese. Alla fine del ’49, circa 750mila palestinesi erano fuggiti nei territori palestinesi rimanenti o nei paesi arabi confinanti (Giordania, Libano o Siria). Nel territorio israeliano, furono distrutti i villaggi palestinesi e furono espulsi i palestinesi residui. Questo evento viene ricordato dai palestinesi come “Nakba”, che in arabo vuol dire “catastrofe”.

La questione palestinese dal 1949

Dopo la prima guerra arabo-israeliana, la Palestina dell’epoca del mandato britannico fu divisa in tre parti: Israele, Cisgiordania e Gaza. Ognuno di questi tre territori ebbe un destino diverso. Nel territorio della Cisgiordania, annesso alla Giordania, visse più della metà dei palestinesi. La politica aveva lo scopo di “giordanizzare” i palestinesi, che occupavano i due terzi della popolazione. Quindi, il re della Giordania diede a tutti i palestinesi la cittadinanza del suo paese.

A Gaza, invece, che era sotto occupazione egiziana, i palestinesi non godevano della cittadinanza egiziana, ma al contrario vennero sottoposti a un regime oppressivo di amministrazione militare. I palestinesi che rimasero a vivere in Israele furono ribattezzati “arabi israeliani”, vennero trattati come una minoranza religiosa e vennero considerati con sospetto dagli israeliani. Furono privati della maggioranza delle loro proprietà, di conseguenza si impoverirono e furono discriminati e marginalizzati.

La gestione della questione palestinese da parte dei Paesi arabi

Già nella prima guerra arabo-israeliana, si può notare che i governi arabi non erano preparati a gestire la questione palestinese. Infatti, anche se formalmente si impegnavano a cooperare in virtù della Lega araba, in realtà erano divisi da interessi nazionali e non riuscivano a gestire al meglio la situazione palestinese.

Dopo la prima guerra arabo-israeliana, l’Onu creò una commissione per avviare negoziati di pace tra Isreale e i Paesi arabi, con lo scopo di trovare una soluzione per i rifugiati palestinesi. La commissione propose degli incentivi per reinsediare i profughi palestinesi nei Paesi arabi, ma questa soluzione venne rifiutata dagli stessi Paesi arabi che vedevano lesi i loro interessi.

La seconda guerra arabo-israeliana

Nel 1953, Israele avviò un progetto per deviare le acque del fiume Giordano e una politica di rappresaglia violenta contro le infiltrazioni arabe nel proprio Stato. Questo fece aumentare di nuovo le tensioni tra Israele e i Paesi arabi confinanti. A cambiare la situazione, però, furono un complotto spionistico israeliano in Egitto e un attacco israeliano contro le postazioni egiziane a Gaza nel ’55. Queste azioni portarono allo scoppio della seconda guerra arabo-israeliana nel 1956. Questa guerra vide coinvolti soprattutto Israele e Egitto, ed è ricordata come “guerra di Suez”.

La nascita dell’Olp

Dopo la guerra di Suez, la tensione tra Israele e Egitto rimase alta. Quindi, il presidente egiziano, Nasser, decise di attivare sotto il suo controllo una rappresentanza politica dei Palestinesi. In più, si propose di creare anche una rappresentanza militare formata da miliziani palestinesi. In virtù di queste rappresentanze, nel 1964 convinse gli altri Paesi arabi a creare l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp).

Tra il 1964 e il 1967, l’Olp si dotò di una Carta Nazionale e tenne il suo primo congresso a Gerusalemme. Tuttavia, l’Organizzazione restava comunque sotto il controllo dell’Egitto, che voleva essere il protagonista della gestione panaraba della questione palestinese.

La terza guerra arabo-israeliana

Nel 1959, nacque il movimento Fatah, il cui capo fu Yasser Arafat. Nel 1965 Fatah condusse una serie di incursioni militari contro Israele, con l’appoggio della Siria. Tuttavia, si mosse dal territorio giordano, quindi le rappresaglie israeliane di risposta colpirono il territorio giordano. In più, Israele bombardò anche i lavori siriani di deviazione delle acque del Giordano. Queste azioni furono l’inizio della successiva terza guerra arabo-israeliana, conosciuta come “guerra dei sei giorni” (5-10 giugno 1967). Durante questa guerra, tutti i territori palestinesi (Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme Est) furono occupati militarmente da Israele.

Le soluzioni diplomatiche per la questione palestinese

Dopo la terza guerra arabo-israeliana, la diplomazia internazionale cercò di nuovo di trovare una soluzione diplomatica della questione palestinese. La base da cui partì fu la risoluzione 242 dell’ONU adottata nel 1967. La risoluzione aveva come principio “lo scambio dei territori in cambio di pace”, ma per la questione palestinese prevedeva solo una giusta risoluzione del problema dei profughi. L’Olp quindi rifiutò a lungo la risoluzione.

In più, c’era un’ambiguità nelle traduzioni nelle due lingue del testo. Nel testo francese, si parlava di “ritiro dai territori conquistati con la forza”. Invece, nel testo inglese, si parlava di “ritiro da territori”, che avrebbe potuto includere anche un ritiro parziale. Infatti, Israele accettò quest’ultima interpretazione, appoggiata anche dagli Stati Uniti.

La quarta guerra arabo-israeliana e gli accordi di Camp David

Dopo i tentativi di concludere accordi diplomatici, si arrivò allo scoppio della quarta guerra arabo-israeliana nel 1973. Questa guerra fu combattuta tra Egitto, Siria e Israele, al di fuori della Palestina. L’esito della guerra fu un “pareggio politico-militare” per gli Arabi, arrivando alla nuova risoluzione dell’Onu. La risoluzione 338 era una conferma della risoluzione 242, ma consentiva i negoziati anche al di fuori dell’ambito Onu.

La fine delle guerre tra Israele e i Paesi arabi avviò un lento processo di normalizzazione dei rapporti tra lo Stato ebraico e i paesi limitrofi. Nel 1977 il presidente egiziano Sadat andò a Gerusalemme per avviare un processo di pace tra Israele e Egitto. Nel 1978, Israele e Egitto firmarono gli accordi di Camp David, che fecero da base per il successivo trattato di pace tra i due paesi. La Lega araba non reagì bene a questo trattato, tanto da isolare l’Egitto.

La prima Intifada palestinese e le conseguenze

A causa del continuo arrivo di coloni ebrei nei territori palestinesi, nel 1987 scoppiò quella che è ricordata come la prima Intifada. Questo termine, in arabo, significa “scrollarsi di dosso” (sottintesa l’occupazione) o anche “lotta, brivido”. Questa fu una lotta “pacifica”, fatta di scioperi e disobbedienza civile, che destò l’attenzione mediatica internazionale e israeliana. L’Intifada portò l’Olp a rivedere la sua posizione ostile. Infatti, nel 1988, il Consiglio nazionale palestinese dell’Olp dichiarò l’indipendenza dello Stato della Palestina sui territori di Cisgiordania e Gaza, riconoscendo di conseguenza l’autorità di Israele.

La disponibilità dell’Olp nel riconoscere il diritto di autodeterminazione del popolo palestinese e nell’accettare la presenza degli israeliani nei territori conquistati nella prima guerra arabo-israeliana non fu ben vista da tutti i palestinesi. Infatti, questo compromesso fu rifiutato da alcuni estremisti islamici, che insieme formarono il movimento Hamas. Per Hamas, la liberazione di tutta la Palestina era un obbligo religioso, che non poteva essere oggetto di soluzioni diplomatiche o di accordi.

Gli accordi di Oslo

Nonostante l’Intifada e il tentativo di trovare una soluzione diplomatica tra Israele e Palestina, i coloni ebrei nei territori palestinesi continuavano ad aumentare. In più, la guerra del Golfo e il crollo dell’Unione Sovietica non facilitavano la situazione. Perciò, l’Olp e Israele decisero di dare una svolta ai negoziati di pace. Dopo una conferenza tenutasi a Madrid e i negoziati segreti in Norvegia, Israele e l’Olp firmarono gli accordi di Oslo del 1993. L’Olp e Israele si scambiarono lettere con cui l’Olp si impegnava a riconoscere il diritto dello Stato di Israele di esistere in pace, mentre Israele riconosceva l’Olp come rappresentante dei palestinesi.

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Mappa dei Territori israeliani e dei Territori palestinesi.

Secondo gli accordi di Oslo, Israele si sarebbe ritirato dalla striscia di Gaza e dalla Cisgiordania e le avrebbe lasciate amministrare da un’autorità palestinese, detta Autorità Nazionale Palestinese. In un secondo accordo, Israele e Palestina definirono le zone di autorità dell’ANP: la zona A (18% della Cisgiordania) sotto il controllo palestinese, la zona B (22% del territorio) sotto il controllo civile della Palestina e quello militare di Israele, e la zona C (60% del territorio e gli insediamenti ebrei) sotto il controllo israeliano. Nonostante la firma degli accordi, dopo di essi continuarono gli scontri violenti tra israeliani e palestinesi.

La questione palestinese dopo il 2000

Il fallimento degli accordi di Oslo provocò l’aumento delle tensioni. La goccia che fece traboccare il vaso fu la marcia del nuovo leader israeliano Sharon nella spianata delle moschee, luogo sacro per i musulmani e sotto il controllo palestinese. Questo portò allo scoppio della seconda Intifada, molto più violenta della prima e caratterizzata dall’aumento di attentati suicidi palestinesi.

A causa dell’intensificarsi della violenza, nel 2001 Sharon avviò un’offensiva militare. Intanto, il presidente americano Bush cercò di delineare una nuova proposta per la creazione dello Stato palestinese. Tuttavia, nel 2002 Israele cominciò a costruire un muro di separazione tra Israele e Cisgiordania, molto criticato perché l’85% del tracciato si trovava nel territorio palestinese. Lo scopo del muro non era solo quello di impedire ai palestinesi di entrare in Israele e compiere attentati. Aveva anche lo scopo di annettere gli insediamenti israeliani della Cisgiordania al territorio israeliano e di controllare i palestinesi nell’eventuale futuro Stato palestinese.

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Il muro di separazione tra Israele e Cisgiordania.

Nel 2006 avvenne una spaccatura all’interno dell’amministrazione palestinese, che portò al peggioramento della questione palestinese. Le elezioni per il Consiglio legislativo dell’ANP furono vinte da Hamas. Seguendo la scia di UE e USA, anche Fatah entrò in conflitto con Hamas, a causa del suo carattere estremista, fino a quando Hamas espulse Fatah dalla striscia di Gaza, prendendone il controllo. Quindi, Fatah aveva il controllo solo delle zone A e B della Cisgiordania.

Israele rispose a questo conflitto, imponendo un blocco terrestre, aereo e marittimo alla striscia di Gaza. Da allora fino ad oggi, non sono finiti gli scontri armati fra Gaza e Israele.

Fonti

  • Guazzone, Storia contemporanea dei paesi arabi, i paesi arabi dall’Impero ottomano ad oggi, Mondadori, 2020
  • Conflitto arabo-israeliano, da Wikipedia