Lolita di Nabokov e il fenomeno del lolitismo

Era il 1955 quando Lolita fu pubblicato, per la prima volta, a Parigi dall’editore Olympia, l’unico ad aver accettato una responsabilità morale di tale portata. E infatti, fu subito scandalo. Lolita non era solo un erotico che coinvolgeva una ragazzina appena adolescente e un uomo di mezza età; era anche anomalo, atipico, inopportuno, amorale. Lolita non si piegava e non poteva piegarsi alle richieste di un pubblico sempre più soffocato dall’ossessiva ricerca dell‘intenctio auctoris.

E a nulla sembravano, in quel momento, valse le lezioni di Oscar Wilde: la letteratura, il cinema, la pittura, la fotografia, la musica, qualsiasi forma artistica, può essere di due tipi, morale o immorale, ma mai amorale. E, d’altra parte, Nabokov, mica ci aveva pensato ad istruire i suoi lettori su quali fossero le strade giuste e quali quelle sbagliate.

Gli insegnanti di letteratura sono inclini ad escogitare problemi come ” Qual è l’intento dell’autore?” o, ancora peggio, “Cosa sta cercando di dire questo tizio?”. Ora, si dà il caso che io sia il tipo di autore che, quando comincia a lavorare ad un libro, non ha altro intento se non quello di liberarsi del libro medesimo […]

Ma di cosa parla “Lolita”? Accenniamo brevemente alla trama.

Lolita: una storia controversa

Il protagonista è l’affascinante Humbert Humbert, insegnante quarantenne di letteratura francese, che ha una particolare inclinazione verso le “ninfette”, piccole ninfe di età compresa tra i 9 e i 14 anni.

 Accade a volte che talune fanciulle, comprese tra i confini dei nove e i quattordici anni, rivelino a certi ammaliati viaggiatori – i quali hanno due volte, o molte volte, la loro età – la propria vera natura, che non è umana, ma di ninfa (e cioè demoniaca); e intendo designare queste elette creature con il nome di ninfette. […]  Ma, entro questi confini, tutte le fanciulle sono forse ninfette? Certo che no. […] Neppure la bellezza è un criterio valido; e la volgarità, o almeno ciò che una determinata comunità definisce tale, non nuoce necessariamente a certe misteriose caratteristiche – la grazia arcana, il fascino elusivo, mutevole,insidioso e straziante che distingue la ninfetta da tante sue coetanee.

Circostanza fortuita: a Ramsdale, in New England, incontra la piccola Dolores, chiamata anche Dolly o Lola, che noi tutti conosciamo oggi con il nome di Lolita.

Era Lo, semplicemente Lo, al mattino, ritta nel suo metro e quarantesette e un calzino solo. Era Lola in pantaloni. Era Dolly a scuola. Era Dolores sulla linea tratteggiata dei documenti. Ma tra le mie braccia era sempre Lolita.

Nascerà una relazione, tutto fuorché socialmente accettabile, tra Lo e H.H: si pensa all’ incesto, alla pedofilia, all’ossessione, al possesso, al plagio, al ricatto e chi più ne ha, più ne metta. C’è un “ma”: chi ha letto “Lolita” saprà che, di tutto ciò, non c’è traccia tra le righe del romanzo. Sono parole che suonano del tutto estranee queste a noi, ingenui lettori. E come potrebbe essere altrimenti se ancora ci assale un brivido di emozione a legger queste parole: “Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi”?

Inquadrare”Lolita”: tra studium e punctum

Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia.

Con queste premesse, inquadrare “Lolita” sembrerà di certo una bella impresa! E, di fatto, lo è. La scelta del termine non è però casuale. Il verbo “inquadrare”, infatti, rimanda ad un procedimento tipicamente fotografico, che è quello di “riprendere con una certa inquadratura”.

Assumendo questo paragone come punto di partenza, ci si potrebbe riallacciare all’analisi che Roland Barthes fece, a proposito della fotografia, nel suo breve saggio “La Camera Chiara”. Emerge, quindi, una distinzione particolarmente interessante: quella tra “studium” e “punctum”, i due criteri valutativi dello spectator, cioè di colui che osserva.

In fotografia, si dice “studium” l’elemento culturale/sociologico che lo spectator investe in una data foto; si dice “punctum”, invece, l’elemento “irrazionale” che lo colpisce e lo “punge”. Ora, assimiliamo questo principio e cerchiamo, nei limiti del possibile, di adattarlo alla letteratura. Si può? Sì e no. Sì, con i dovuti accorgimenti.

In linea di massima, possiamo affermare che in letteratura esiste uno studium ed esiste un punctum e sebbene, teoricamente parlando, questi due elementi dovrebbero esser compresenti, non sempre è così. E non è così nel caso di “Lolita”: “Lolita” è, in toto, un punctum. Potremmo sforzarci di trarne uno studium, ma è un romanzo che rimane del tutto incomprensibile a chi non l’ha mai letto. Non c’è tempo, non c’è spazio e non c’è una filosofia che tenga. Questo perchè “Lolita” non insegna nulla, non permette mai al lettore di varcare la soglia dello studium, non permette di investire un patrimonio culturale; “Lolita” è solo inspiegabilmente bello e ciò che provoca è solo una “piccola ferita”, un punctum, ad ogni rigo.

Lolita
Dominique Swain nella “Lolita” di Adrian Lyne (1997)

“Lolita”: romanzo erotico?

Come detto in precedenza, “Lolita” è fondamentalmente un erotico. Non a caso, l’Olympia press, la casa editrice che per prima ebbe il coraggio di pubblicarlo, ne ebbe l’esclusiva. Erotico sì, ma non solo e non sempre. La definizione di un genere letterario simile rimane comunque di per sé molto complessa e nel caso di “Lolita” lo è ancor di più. Permettetemi di utilizzare nuovamente una definizione operata da Barthes a proposito della differenza tra foto pornografica e foto erotica.

La pornografia e l’erotismo: tra Barthes e Nabokov

La pornografia è unaria, si concentra cioè su un solo elemento, ostentando sistematicamente una sola cosa. Al contrario, l’erotismo riesce a distrarre lo spectator e a spostare l’attenzione verso altro da ciò che dovrebbe essere il fulcro dell’immagine. Con le dovute cautele, questa distinzione potrà spiegare, in poche parole la differenza che intercorre tra “Lolita” e un ordinario romanzo erotico. Riportando le parole che lo stesso Nabokov scrisse per la postfazione al libro:

È anche vero che ai nostri giorni il termine “pornografia” suggerisce subito l’idea di mediocrità, del lucro e di certe ferree regole narrative. L’oscenità deve accoppiarsi con la banalità, perché qualsiasi genere di godimento estetico dev’essere interamente sostituito dal semplice stimolo sessuale, il quale, per avere un’immediata efficacia sul paziente, esige la terminologia tradizionale. […] Cosi, nei romanzi pornografici, l’azione deve limitarsi alla copula del cliché. Lo stile, la struttura, le immagini non dovrebbero mai distrarre il lettore dalla sua tiepida lussuria. […] I passaggi tra l’una e l’altra devono ridursi a suture di significato, ponti logici dal disegno elementare […] Certe tecniche all’inizio di Lolita (il diario di Humbert, per esempio) hanno indotto alcuni dei miei lettori a credere che si trattasse di un libro licenzioso. Si aspettavano il crescendo di scene erotiche; quando quelle si interruppero, loro interruppero la lettura, sentendosi annoiati e traditi. [1]

Ma aggiunge:

Il loro rifiuto di comprare il libro era motivato non dal mio modo di affrontare il tema, ma dal tema stesso: per quanto riguarda la maggior parte degli editori americani, infatti, ci sono almeno tre temi assolutamente tabù. [1]

Perché leggere “Lolita” fa paura?

Non è, infatti, propriamente il tema a spaventare il lettore, quanto piuttosto il timore di esserne di fatto coinvolti, di esser complici. Come “L’Olympia” di Manet, “Lolita” guarda in faccia allo spectator. Ogni lettore, prima o dopo, dirà: “Sono io. Potrei essere io”. Ogni uomo capirà di non essere poi così diverso da Humbert, e di essere stato, almeno una volta nella vita, abbagliato dalla malizia innocente di una ninfetta. Ogni donna scoprirà di essere stata, per un breve lasso di tempo, una piccola e affascinante Sue Lyon sdraiata al sole con il suo cappello di piume.

Lolita e il lolitismo nella cultura occidentale

Lolita
Una delle più famose lolite del cinema: Mena Suvari in “American Beauty” di Sam Mendes (1999)

La consapevolezza che ne deriva va ben oltre il libro stesso. Il termine “lolita”, infatti, nasce proprio con Nabokov e porta alla luce, in ambito sociologico, una serie di fenomeni e contraddizioni che sarebbe bene analizzare.

La “lolita” è, per definizione, un’adolescente precoce, che, per i suoi atteggiamenti maliziosi, già suscita desideri sessuali in uomini maturi. In genere, l’età della lolita può andare dai nove ai quindici anni; tuttavia, nell’adattamento odierno del termine, anche una ragazza più grande che conservi questo tipo di caratteristiche può essere definita tale. Sebbene, storicamente, si siano avute diverse testimonianze di figure simili, soprattutto in ambito di mitologia, è solo con Nabokov che si ha l’esplosione della lolita come vero e proprio idolo pop.

Per “lolitismo” si intende “atteggiamento da lolita”, dunque, la mania e la moda verso quest’ultimo. E, in effetti, l’immagine della piccola Sue Lyon nell’omonima trasposizione cinematografica di Stanley Kubrick ha sedotto tutta la cultura occidentale, trasformando la lolita in icona, in sogno erotico condiviso. Ne sono una testimonianza le numerose lolite del cinema: da American Beauty a “Ultimo tango a Parigi”, passando per “Lèon”, “Giovane e Bella” e “Un momento di follia”.

L’unico modo per far fronte allo scandalo è normalizzarlo, rinchiuderlo in uno schema preimpostato. Ed ecco che, nel giro di cinquant’anni, non è più tanto sconvolgente vedere uomini accompagnati dalle loro seducenti e graziose ninfette. Bizzarro, no?

Lolita è emancipatorio?

Si arriva, dunque, al punto cruciale: ma “Lolita” è emancipatorio? La risposta è no. E come potrebbe esserlo? La piccola Dolly appare del tutto inconsapevole di ciò che le accade ed incapace di controllarlo. D’altra parte, Humbert è costretto ad elargire ogni sorta di premi e consolazioni alla sua lolita per ottenere ciò che vuole. Non si può parlare, in questo caso, di un rapporto biunivoco, quanto piuttosto di vittima e carnefice.

Gli effetti del lolitismo sulla cultura di massa

Il fenomeno del lolitismo ha portato ad esiti del tutto negativi. Se si tralasciano, per il momento, prostituzione minorile o pedofilia, si potranno vedere conseguenze quotidiane diventate norma all’interno del sistema sociale.

La lolita, come dicevamo prima, non sconvolge più, dunque gli uomini non sono più costretti a nascondersi e giustificarsi come invece era tenuto a fare Humbert. L’oggettificazione del corpo adolescenziale è diventata normale, così come lo è l’approccio ad esso. La ragazzina, nel suo insolito mix di innocenza e malizia, seduce l’uomo maturo per un motivo fondamentale: è vulnerabile. Vulnerabilità e giovinezza sono un must, un brand da impacchettare e vendere al miglior offerente. Come diceva Arthur Schopenhauer:

La giovinezza senza la bellezza ha pur sempre del fascino; la bellezza senza la giovinezza non ne ha alcuno.

La lolita non è altro che la cristallizzazione di una gioventù perduta e affascinante, come Dolly lo era di Annabel, primo amore di Humbert. Diventa una fotografia, che trasforma la persona in puro oggetto nelle mani del suo possessore. Questo fenomeno, che Barthes definirebbe “microesperienza della morte attraverso il fermo del tempo” ha condotto alla nascita di categorie sociali che vedono l’età come un marchio irreversibile per la donna. Il contrario accade all’uomo: più invecchia, più acquisisce fascino.

È uno squilibrio che, in un certo senso, riporta in auge altre due categorie, ancor più antiche: quelle di sesso forte e sesso debole. L’età, dunque, diviene il simbolo inconscio dei tradizionali rapporti di dominazione e subordinazione. L’uomo è sempre più grande, più forte, più colto, più saggio, con più esperienza rispetto alla sua lolita. Con queste premesse, sarebbe assurdo definire “Lolita” come emancipatorio. Ma può esserlo? la risposta, stavolta, è sì.

Leggere “Lolita” nel nuovo millennio

Ma allora, cosa significa leggere Lolita nel nuovo millennio? Come dobbiamo leggerlo? Come può diventare emancipatorio? La domanda non è “perché”, ma “perché no”. Il titolo del paragrafo cita, volontariamente, quello di un grande best-seller di Azar Nafisi: “Leggere Lolita a Teheran”.

E allora, perché “a Teheran” e non “nel nuovo millennio”? Ci sarebbe piuttosto da chiedersi: perché sette ragazze iraniane possono trarre nuova consapevolezza e nuova forza dalla lettura di un romanzo così poco emancipatorio, e noi, qui nell’anno 2017, non possiamo? La storia di Dolly può aprirci una via: quella della scelta, della consapevolezza, nel nostro potenziale da “lolite”; il nostro sogno, la nostra attrazione può essere reciproca; può essere nostro l’intento di sedurre e, non per forza, dovremo essere approcciate come carne da macello. Leggere “Lolita” nel nuovo millennio significa approcciarsi alla non-scelta scegliendo; non più solo “Lolita”, ma anche “Humbert”.

Martina Pedata

Fonti