La catarsi nell’antica Grecia, tra medicina e teatro

Significato della parola catarsi

La parola “catarsi“, dal greco κάθαρσις (kàtharsis), ha il significato di “purificazione“, “liberazione“. Pur non essendo una parola molto ricorrente nella nostra quotidianità, capita di usarla per indicare un processo attraverso cui ci si libera da una situazione di forte stress, di dolore o di angoscia. Nell’antica Grecia, il termine era usato maggiormente nel significato medico di “purga“, “evacuazione, poi, fu impiegato in àmbito religioso con il significato di “purificazione“, ma più problematica fu l’accezione che assunse nella Poetica di Aristotele.

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Poetica di Aristotele

La catarsi in àmbito medico

Nel campo della medicina greca, la catarsi si ritrova, come abbiamo visto, nei significati di “evacuazione“, “mestruazione“. In particolare, nelle opere del Corpus Hippocraticum si usa spesso in riferimento alle perdite mestruali delle donne, alle evacuazioni di umori o agli effetti di purificazione che possono verificarsi dopo la somministrazione di purganti.

In primis è necessario precisare che, pur nella arcaicità della medicina ippocratica, il medico era consapevole delle differenze che potevano intercorrere tra malato e malato; la malattia era considerata “come un qualcosa di estraneo che si impianta nell’organismo”. Dunque, si presupponeva che il malato, dopo aver rispettato tutte le prescrizioni del medico, potesse guarire per mezzo di una purificazione, di una fuoriuscita catartica di sangue o di umori. Tale era la catarsi. Questa purificazione avveniva in alcuni casi per effetto di un purgante, phàrmakon.

La catarsi femminile

Un significato a parte assume il termine catarsi in riferimento alle malattie femminili. La fisiologia della donna era collegata alla sua funzione riproduttiva e si riteneva che il debole corpo femminile potesse trovare un benessere passeggero soltanto durante la catarsi del sangue mestruale; poi in gravidanza la donna godeva di una situazione di quiete più duratura.

Nelle opere del Corpus Hippocraticum, in assenza di mestruo o nel caso in cui si presenti incolore o scarso, diverse sono le teorie mediche a riguardo. In presenza di una catarsi mestruale incolore o irregolare, il medico comunicava alla paziente la necessità di purificarsi. Solo nel caso di gravidanza l’assenza del mestruo era considerata positiva; tuttavia, se in gravidanza si presentavano perdite di sangue, si diceva che il bambino non sarebbe potuto nascere sano.

Inoltre, nei casi in cui le purificazioni mestruali non avvenivano correttamente, il medico evidenziava come questo potesse causare diverse patologie. Da questa concezione derivano vari riferimenti alla follia delle donne. Infatti ben sappiamo come, ancora al giorno d’oggi, si facciano spesso allusioni ai nervosismi tipici delle donne in fase premestruale; il diverso livello di ormoni sessuali determina vulnerabilità emotive, tra cui ansia, tristezza, irritabilità.

Anche nelle opere ippocratiche svariati sono i riferimenti al manifestarsi di agitazione e depressione all’interno di malattie tipicamente femminili. Inoltre si deve considerare come, spesso, l’insorgere di ira, paura, dolore sia messo in stretta relazione con fenomeni fisici quali febbre, sudori, cardiopalmo; allora, la guarigione spesso poteva verificarsi mediante l’attivazione di emozioni nel paziente. In tal modo si attuava la catarsi, perché se in alcuni casi la paura poteva essere dannosa per il paziente, in altri poteva favorirne la guarigione.

La catarsi in Aristotele

Aristotele definisce così la tragedia:

«Tragedia è dunque imitazione di un’azione seria e compiuta […], la quale per mezzo di pietà e paura porta a compimento la depurazione di siffatte emozioni» (Po. 1449b 24, 27-28).

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Illustrazione di Aristotele

In questo modo Aristotele nella Poetica definiva la rappresentazione tragica come un momento catartico: il fine della tragedia sarebbe dunque quello di procurare piacere attraverso una rappresentazione ricca di emozioni e realizzare una catarsi come purificazione dello spettatore e di coloro che rappresentano il dramma sulla scena.

Quindi, lo spettatore, immedesimandosi nel personaggio, eliminerebbe le tensioni provate in prima persona durante la rappresentazione e giungerebbe quindi all’hedoné, il piacere.

Tuttavia, la definizione aristotelica di kàtharsis ha creato nel tempo numerosi problemi, poiché ne sono state date svariate interpretazioni.

Nietzsche, per esempio, in Nascita della tragedia, rifiuta l’interpretazione della catarsi come purificazione morale, e la intende come trasformazione dello spettatore. Goethe, invece, sostiene che Aristotele non avrebbe mai potuto pensare a un coinvolgimento diretto degli spettatori nel processo catartico, e che riferisse il termine kàtharsis a uno scioglimento delle azioni rappresentate.

Tuttavia, molto importante fu anche la teoria medica della catarsi formulata da Jacob Bernays nel 1857. Partendo dalla Politica di Aristotele, egli metteva in relazione ‘iatreia’, “cura medica” con ‘kàtharsis’ e dava a questa parola il nuovo significato di scaricamento alleviante. Lo stesso Aristotele, infatti, nella Politica spiega come la musica possa avere uno scopo educativo, catartico:

«E infatti vediamo che quando alcuni, che sono esposti all’entusiasmo, odono canti sacri che trascinano l’anima, allora si calmano come se fossero nelle condizioni di chi è stato risanato o purificato» (Pol. 1342a 7-11).

Interpretazione letterale della catarsi aristotelica

Tuttavia, dal momento che non si hanno spiegazioni ulteriori dello stesso Aristotele sul concetto di kàtharsis, bisogna fermarsi a una interpretazione quanto più letterale possibile. Dunque “pietà” e “paura” sono elementi fondanti della tragedia e sono anche le emozioni che la tragedia deve risvegliare nello spettatore.

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Teatro greco

Inoltre, il fine della tragedia è quello di suscitare piacere attraverso la mimesi di pietà e paura: con lo scioglimento dell’azione, λύσις (lysis), si verifica la catarsi, ma non solo; infatti, Aristotele non usa il termine ‘lysis’, ma ‘kàtharsis’, ragion per cui la purificazione si realizza nello scioglimento dell’azione e in un riequilibrio delle vicende dolorose vissute dai personaggi, anche se non sempre positiva.

Ne consegue che a una prima risoluzione delle vicende narrate, si aggiunga poi il coinvolgimento del pubblico, un vero e proprio rapporto di empatia tra personaggi e spettatore, che fa sì che colui che assiste alla rappresentazione si immedesimi provando anch’egli pietà e paura.

Interpretazione religiosa della catarsi

Per quanto riguarda la frequenza con cui la parola kàtharsis ricorre nei tre principali tragici greci, si può constatare come non compaia mai in Sofocle e in Euripide, mentre in Eschilo la si ritrova due volte nelle Eumenidi. Tuttavia, in nessuno dei due casi sembra essere collegata al processo catartico aristotelico.

Invece, dal punto di vista religioso, la catarsi nel senso di “purificazione” fa parte dei rituali dell’antica religione greca, la cui funzione «consiste nella formazione del gruppo, nella solidarizzazione o nel favorire l’intercomunicazione fra gli individui».

Quindi per realizzare gli obiettivi che gli uomini si prefiggono, si compiono dei rituali religiosi a favore delle divinità; si parla, per esempio, di sacrificare animali domestici, offerte di primizie, impiego del fuoco, libagioni di vino, di miele, di olio o di acqua. Poi durante i rituali si innalzano preghiere alle divinità, ma per compiere ogni tipo di azione, l’uomo deve essere pulito. Allora si devono compiere dei riti di purificazione.

Tale purificazione avveniva durante cerimonie di culto e diventava un vero e proprio momento fondante di inclusione all’interno di un gruppo. Difatti chi è puro è considerato superiore rispetto a chi non lo è e ciò crea due gruppi ben distinti. In questi casi la purificazione prevede un’azione di tipo rituale attraverso la quale l’uomo elimina le impurità interiori ed esteriori per mezzo dell’acqua o attraverso la pratica della fumigazione.

Quindi l’azione catartica si compie per eliminare la sporcizia esteriore, ma è una pratica rituale che serve anche per liberarsi di quei turbamenti come la malattia, la morte, i rapporti sessuali e le contaminazioni che riguardano la vita umana e che non possono essere evitate, come nel caso della follia.

Punti di contatto tra Ippocrate e Aristotele

Che si riferisca alla purga di sangue o di umori o alla purificazione delle emozioni, in entrambi i casi il processo catartico determina una soluzione; la sua realizzazione implica la conclusione di un processo doloroso dal punto di vista fisico o emotivo, lo scioglimento di un evento drammatico, con o senza lieto fine.

Perciò, pur appartenendo a campi d’indagine e periodi storici differenti, un punto di contatto tra la concezione della catarsi presente nel Corpus Hippocraticum e quella che vien fuori dalla Poetica di Aristotele si può trovare nella teoria secondo cui la paura possa in alcuni casi essere collegata alla guarigione del paziente.

Dunque, come afferma lo studioso Di Benedetto la paura «assolve a un compito terapeutico: un buon precedente per la funzione catartica della concezione aristotelica». Infatti, proprio l’attivazione di emozioni in alcuni pazienti può innescare un processo di guarigione.

Similmente, nella concezione aristotelica della catarsi si può evidenziare come la rappresentazione di pietà e paura sulla scena implichi anche un coinvolgimento degli spettatori; quindi, come si è visto precedentemente lo spettatore si immedesima e, attraverso il manifestarsi di tali emozioni, subisce un processo catartico.

Emma Piscitelli

Bibliografia:

  • Valeria Andò, Terapie ginecologiche, saperi femminili e specificità di genere, in Garofalo-Lami, Aspetti della terapia nel Corpus Hippocraticum, «Atti del IX colloque international hippocratique. Pisa, 25-29 settembre 1996», Firenze 1999.
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  • Enrico Flores, La catarsi aristotelica dalla ‘Politica’ alla ‘Poetica’, «Atti del colloquio su poetica e politica fra Platone e Aristotele. Napoli, 7-8 maggio 1987», Roma 1988.
  • Diego Lanza, Aristotele. Poetica, Milano 1987.
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  • Gherardo Ugolini, Nietzsche e la polemica sul tragico, in Lanza-Ugolini (edd.), Storia della filologia classica, Roma 2016.
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