I commentarii di Gaio Giulio Cesare: il De bello Gallico

Il nome di Gaio Giulio Cesare é legato a due opere di grande interesse storico e letterario: i Commentarii de bello Gallico, 7 libri sulla campagna in Gallia e i Commentarii de bello civili, 3 libri sulla guerra civile che oppose Cesare e Pompeo tra il 49 d il 48 a.C.

I due scritti furono concepiti dall’autore come un’opera unitaria in 10 libri, i C. Iulii Caesaris commentarii rerum gestarum, e divisi in due in età Antonina.

Il personaggio di Cesare

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Busto di Cesare – Staatliche Museen Berlin

Gaio Giulio Cesare (100-44 a.C.) domina la scena politica della I metà del secolo a.C. e riunisce in sé tutte le contraddizioni di una intera epoca che da lui prende il nome.

Discendeva da una famiglia di antica nobilitas, percorre tutto il cursus honorum tra le file dei populares, fino a costruirsi e conquistare un potere personale che non poteva essere contenuto negli assetti costituzionali repubblicani. Cesare era riuscito a creare qualcosa che andava oltre la Repubblica e che la Repubblica e le sue istituzioni non potevano più contenere.

Fu un uomo dotato di un grande ingegno che applica non soltanto con successo nelle sue campagne militari e ai massimi livelli della scena politica contemporanea, ma anche e in maniera valente in letteratura.

I commentarii

Il termine commentarii significava propriamente “appunti, promemoria”. Indicava un genere letterario minore, una narrazione intesa come una spoglia registrazione di notizie personali, di dati destinati a essere in seguito rielaborati da altri nella forma più completa e artistica, propria del genere storiografico.

Il termine commentarius include vari significati:

  • rapporto ufficiale inviato al Senato da un magistrato o da un generale;
  • memorie personali di uomini politici impegnati;
  • raccolta di materiali grezzi per la stesura di un’opera storica a più ampio respiro.

Nei commentari cesariani ritroviamo tutti e tre questi aspetti menzionati. Questi infatti hanno lo stile oggettivo e impersonale di un rapporto ufficiale sull’operato di Gaio Giulio Cesare; costituiscono, inoltre, un resoconto autobiografico di un uomo politico che é il protagonista delle azioni narrate; non hanno ricevuto, inoltre, l’elaborazione stilistica che si addice ad un’opera storica, anche se non mancano di pregi formali e di retorica auto-celebrativa.

I Commentarii cesariani

Nei due Commentarii Cesare descrive rispettivamente il proprio operato nei sette anni di campagne galliche (58-52) e nella guerra civile contro Pompeo e il senato (49-48).

Commentarii cesariani racchiudono due prospettive di lettura.

Documentazione ufficiale

La prima è quella di documentazione quasi ufficiale. Molto spesso in Cesare, infatti, soprattutto nel De bello Gallico, si trova traccia di lettere al senato, di relazione dei legati al comandante in capo, di descrizioni geografiche e topografiche e di testi tecnici (descrizioni della costruzione di ponti, di strade, di fortificazioni), di dati ufficiali, persino di espressioni burocratico-militari.

Guardandoli da questa prospettiva, i Commentarii non sono volti solo alla costruzione di un personaggio o di un modello di vita esemplare secondo i dettami del genere della biografia ufficiale, e nemmeno di un’immagine da tramandare ai posteri, secondo la tradizione aristocratica romana, quanto a intervenire direttamente nella vita politica di Roma con l’intento di giustificare razionalmente l’operato del generale: un modo di opporsi ai violenti attacchi pubblici e privati degli avversari con la narrazione dei fatti.

Il modo di scrivere di Cesare prende spunto dallo stile della cancelleria e dei rapporti dei comandanti militari come lo dimostrano l’uso molto esteso dell’ablativo assoluto e del discorso indiretto, caratteristico di un uso che mirava a brevità e densità informativa.

Testo letterario

Altra prospettiva è quella che riguarda la natura del testo letterario a confronto con la tradizione storiografica che riguardava i contenuti (la guerra, la politica e anche l’etnografia), i metodi (lo storico si confronta con la verità, non con il favoloso, e quindi preferisce la storia contemporanea e a lui vicina perché verificabile) e soprattutto le forme.

Infatti sin dall’epoca del padre della storia Erodoto, la storia è opus oratorum maximum e quindi appartiene di diritto alla letteratura. Lo storico ha pertanto tutto il diritto di fingere, cioè di plasmare e deformare la materia secondo determinati scopi retorici.

La finzione, cioè la ricostruzione del materiale, muove in tre direzioni: può alterare l’ordine dei fatti e crearne uno artificiale; può introdurre dei discorsi che lo storico non ha mai sentito, e che forse non sono mai stati pronunciati; può introdurre le figure retoriche in direzione di uno stile drammatico.

Pur nella loro obiettiva nudità, le opere di Cesare operano uno scarto nei confronti del genere del commentario. In Cesare, infatti, non manca nessuna delle forme retoriche degli antichi storici.

Per esempio Cesare usa la terza persona, come artificio retorico per prendere le distanze appunto dalla materia e renderla più oggettiva. Era disdicevole per un uomo aristocratico celebrare in prima persona i propri successi.

A partire dagli ultimi libri del De bello Gallico, poi, cominciano a comparire i discorsi in oractio recta, inizialmente brevi poi sempre più elaborati come quello di Critognato che postula di cibarsi dei corpi di chi non è più adatto alla difesa di Alesia.

Genere letterario dei commentarii

Le differenze con la storiografia

Il commentarius all’interno del panorama dei generi letterari si distingue dalla storiografia sotto alcuni aspetti: mentre la storiografia narra un periodo più o meno ampio, il commentarius si concentra sulla vita, o parte, di un personaggio pubblico.

La storiografia mira all’oggettività ed ad una narrazione dallo stile elevato, mentre il commentarius ha spesso intenti auto-encomiastici o apologetici, accontentandosi di uno stile non troppo elevato.

I Commentarii erano forme di espressione più individuali e non necessariamente pubbliche, che confluivano spesso come documentazione ufficiale negli archivi dei collegi sacerdotali.

Il termine commentarius ritorna in epoca tardo-repubblicana per qualificare un genere di memorialistica autobiografica: oltre a Cesare autore degli unici commentarii a noi giunti, ne scrissero Silla, Cicerone e Augusto.

Il contenuto del commentarius poteva variare da una sorta di prova che precedeva la pubblicazione di materiali grezzi, alla stesura di idee personali e di fatti privati, con l’aggiunta non tassativa di figure retoriche. Potevano essere i materiali di cui si sarebbe servito successivamente uno storico che avesse bisogno di documenti redatti di prima mano.

Il significato pubblico

Al di là del suo impiego successivo, il commentarius rivestiva un importante interesse e significato pubblico in quanto era indirizzato alla difesa della dignitas del magistrato in carica, e serviva quasi come autodifesa personale: a Roma il magistrato non dava il resoconto del suo operato alla fine del suo mandato; era, dunque, spesso attaccato in sede giudiziaria, una volta che il suo mandato poteva dirsi concluso.

Una prova convincente che i memoriali non erano sentiti come storiografia ufficiale, ma come armi politiche, può venire proprio dall’alto livello politico e sociale dei vari autori di commentarii.

Va considerato che la stesura di opere storiografiche richiedeva applicazione e tempo, e dedicare tempo all’otium letterario era ritenuto lesivo della dignitas dell’aristocratico impegnato nella politica attiva. Egli poteva fare un’eccezione per l’inferiore e meno impegnativo genere del Commentarius.

La storiografia ufficiale romana è infatti opera di uomini politici di secondo piano che guardavano la politica da fuori o di lato, come i primi annalisti, di magistrati ritiratisi dalla politica come Sallustio, o di intellettuali lontani dalla politica attiva, come Tito Livio.

De bello Gallico: struttura e datazione

Il De bello Gallico può essere suddiviso in due blocchi:

  • libri I-VII: campagna di conquista della Gallia (58-52 a.C);
  • libro VIII: organizzazione territoriale della Gallia e antefatti della guerra civile (51-50 a.C.); il libro è attribuito al luogotenente di Cesare, Aulo Irzio.

La cronologia

Sono due le ipotesi circa la cronologia della composizione del De bello Gallico. Cesare potrebbe aver composto singoli libri nell’inverno di ciascun anno di guerra, durante la sospensione delle operazioni militari, e questa ipotesi verrebbe avvalorata dall’evoluzione stilistica interna dell’opera; oppure Cesare avrebbe scritto di getto il libri I-VII del De bello Gallico nell’inverno del 52-51 a.C.

L’ambizione per la conquista

Il mandato che Cesare aveva ricevuto dal Senato non contemplava conquiste o allargamenti del territorio romano. L’ambizione personale del proconsole, però, prese a pretesto alcuni atti di sconfinamenti degli Elvezi e di altre tribù germaniche, che mettevano a repentaglio la sicurezza di alcuni popoli romanizzati. Così diede il via ad un vasto disegno di conquista dell’intero territorio celtico, preoccupandosi di presentarlo al senato come una legittima operazione di consolidamento preventivo dei confini della Gallia romana e romanizzata.

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Si trattava in realtà di conquistare una regione ricchissima di materie prime e di schiavi e di aprirla in tutta sicurezza ai commerci romani.

Le campagne galliche cesariane durarono sette anni, dal 58 al 52; destreggiandosi con straordinaria capacità militare e strategica tra vittorie e battute d’arresto, Cesare riuscì a portare a termine la sottomissione dell’intero territorio. Quando lasciò la Gallia nel 51 a.C., la demarcazione era tra il mondo civile, a ovest del Reno, e i territori desolati dei Germani a est del Reno.

La manipolazione della realtà

I Commentarii de bello Gallico non contengono palesi falsificazioni che avrebbero inficiato la credibilità dell’opera; ma é tra le righe e le lievi omissioni o dislocazioni che si cela, invece, un sottile intento manipolatorio allo scopo di presentare la campagna gallica come una guerra difensiva, volta a rafforzare la sicurezza di Roma e a proteggere l’aristocrazia gallica minacciata dai rivoltosi.

Tra le righe, inoltre, Cesare mette in risalto le sue capacita militari e politiche attribuendo all’incertezza della sorte la responsabilità di sconfitte e scelte errate.

La geo-etnografia del De bello Gallico

Molti capitoli del primo commentario di Cesare sono dedicati alla descrizione dei popoli della Germania, della Gallia e della Britannia.

Le pagine etnografiche del De bello gallico, cioè quelle dedicate a usi e costumi, siti geografici etc. soddisfacevano una curiosità che a Roma era vivissima.

Nella propria descrizione Cesare rielabora notizie preesistenti, provenienti, per esempio, dal geografo e filosofo greco Posidonio di Apamea e da Polibio; altre ne fornisce di prima mano, mosso anche dallo scopo pratico di favorire la penetrazione dei mercati presso le pavie popolazioni.

Cesare conosce assai meglio di Polibio le popolazioni oggetto dei suoi scritti e quindi nel De bello Gallico può chiamare le diverse civitates (tribù) con il proprio nome, fornendo della Gallia una mappa geoetnica molto accurata.

Egli caratterizza i Galli, in modo non dissimile da Polibio, rilevando il loro coraggio e la passione per la guerra, la facilità ad accendersi come a perdersi d’animo, la franchezza ed il gusto per l’esibizione al limite della millanteria, la passione per i monili e gli ornamenti d’oro; muta però profondamente, rispetto alle sue fonti, la prospettiva, il punto di osservazione, che nasce in lui da un interesse specifico e non solo descrittivo.

L’indubbia curiosità e l’attenzione di Cesare per il mondo celtico non sono cieche e indifferenziate, ma si muovono secondo fili ben precisi.

Col De bello Gallico egli vuole infatti spiegare ai ceti interessati alla conquista le potenzialità economiche del paese e, d’altro canto, allo scopo di giustificare le proprie imprese, deve spiegare come i Galli rappresentino un pericolo costante per Roma; così, dei Galli, da un lato sottolinea gli elementi che più li fanno simili ai Romani, dall’altro le loro inclinazioni bellicose.

Distinzione tra popolazioni celtiche e germaniche

La scoperta della distinzione tra popolazioni celtiche e germaniche è un merito della ricognizione etnografica di Cesare e segna un grande progresso nello studio delle due grandi tradizioni.

Ma la volontà di conoscere di Cesare non è oggettiva in assoluto, non è esente da schemi mentali e da pregiudizi. L’analisi dei costumi di vita dei Galli dimostra che il punto di osservazione di Cesare è il mondo greco-romano: a mano a mano che ci si allontana dal mondo “civile” il tasso di civiltà diminuisce.

Il mondo celtico

Nel De bello Gallico Cesare descrive il mondo celtico come un mondo in evoluzione almeno da un secolo verso forme di cultura materiale e strutture sociali più simili a quelle del mondo greco-romano. Si stavano avvicinando all’urbanizzazione; alla propensione al lusso e ai piaceri tipici di una società evoluta; alla rigida divisione delle classi sociali tra sacerdoti, cavalieri e plebei; ad una presenza dell’istituto della clientela; ad una continua faziosità tra le varie comunità.

I germani

I germani hanno tratti completamente diversi, più primitivi: una religione naturalistica che divinizza i fenomeni naturali e senza sacerdoti di professione; forme di sostentamento arcaiche come la caccia e la guerra; il culto della fatica e della forza fisica; la temperanza sessuale, la gestione comunitaria delle terre; l’assenza della proprietà privata e una relativa uguaglianza economica; l’assenza di forme statuali se non in tempo di guerra.

In Britannia le popolazioni della costa, di fatto tribù celtiche imparentate con i belgi del nord della Gallia, sembrano più civili di quelle rozze dell’interno.

Descrivendo l’indole primitiva dei britanni e quella dei germani rispetto ai costumi più evoluti dei galli, Cesare vuole indicare al pubblico che una politica di conquista di questi territori è ancora prematura.

Le classi più interessate allo sfruttamento delle province non dovevano, dunque, aspettarsi alcun profitto da territori abitati da popolazioni bellicose e non inclini al commercio.

Il termine “barbaro”

I pregiudizi di Cesare nei confronti di forme di civiltà diverse nasce naturalmente dal significato che il mondo greco-romano aveva sempre dato al termine “barbaro” cioè lo straniero, colui che non parla la lingua.

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Moneta Celtica della tribù dei Parisi o Quarisi, Gallia

Barbaro” è in primo luogo chi non abita in città difese da mura, chi non può disporre di acqua corrente (fontane, terme, acquedotti), chi non frequenta edifici pubblici come portici, fori, teatri, biblioteche, chi preferisce la caccia e la raccolta all’agricoltura (vino, cereali, legumi), chi pratica il baratto invece che il commercio con l’uso della moneta, chi ha regole di convivenza improntate alla legge del più forte, chi non ha istituzioni organizzate e assemblee.

È barbaro chi venera divinità naturali praticando spesso sacrifici umani, chi non partecipa alla vita pubblica.

La geografia dei barbari

Barbaro implica anche una demarcazione geografica. Per i greci prima e per i romani poi, i popoli che minacciavano la loro civiltà stavano all’esterno di precisi confini, tracciati sulle carte geografiche e, in età imperiale, protette da una serie di fortificazioni. Ad esempio il limes germanico-retico tra Reno e Danubio; il vallo di Adriano, che teneva lontane le bellicose tribù della Scozia; le fortezze nel deserto siriaco, a sud di Palmira o verso la Mesopotamia. Queste segnavano una frontiera netta tra chi viveva nell’oikuméne, il mondo abitato, e chi era fuori del mondo, in terre spesso ignote.

La curiosità per il diverso

La curiosità dei romani verso le altre popolazioni era dettata sì da una normale tendenza alla conoscenza, ma anche da fini pratici. Capire il nemico, fronteggiarlo e sottometterlo.

Già dal mondo antico si era delineata una netta differenza tra dispotismo orientale persiano e mondo libero occidentale. Una distinzione destinata a diventare uno dei motivi cardine del nostro pensiero etico-politico.

La Germania di Tacito

In età imperiale, un secolo e mezzo dopo, Tacito scrive un’opera interamente etnografica, l’unica giuntaci dal mondo antico. la Germania (De origine et situ Germanorum) ci lascia una descrizione disinteressata di popoli che vivevano al di là del Reno; al tempo stesso però metteva in guardia i suoi concittadini della pericolosità dei barbari.

Il mondo germanico, descritto come vivo e incorrotto, diventa uno strumento per analizzare la decadenza di quegli antichi mores che avevano dato a Roma solide basi per costruire il più grande e duraturo impero occidentale mai esistito.

Maria Francesca Cadeddu