Il falso al cinema: da Walter Benjamin al mockumentary

Prima di tracciare il percorso interdisciplinare riguardante il documentario (ma, per essere più specifici, di tutto il cinema non-fiction) si è già sottolineato il fatto che si deve fare attenzione con i termini vero e/o falso.

Quando si parla di documentario spesso si compie un errore di disattenzione considerandolo come una semplicistica trasposizione della realtà così come essa si presenta. Il documentario, così come tutto il cinema non-fiction, si pone, in realtà, in una posizione a confine tra vero e falso: tutto ciò che viene filmato, inevitabilmente, viene modificato e alterato anche solo per il semplice fatto che i protagonisti sanno di essere filmati.

Senza poi considerare una delle forme di alterazione più incisive: il montaggio.

Ciò che poi si deve sottolineare è che la realtà non può mai essere afferrata nella sua essenza, ciò con cui si ha a che fare è sempre una realtà, una forma, un solo aspetto e una sola facciata del cristallo della realtà.

In questo senso ci si avvicina molto alla filosofia deleuziana, uno dei più grandi osservatori e studiosi delle forme cinematografiche, il quale afferma che «la vita non può essere raggiunta, trovata né riprodotta, deve essere creata»[1].

Secondo Deleuze l’artista, a differenza del semplice mentitore, non pietrifica ma coglie la trasformazione in se stessa, inserendola nella prospettiva temporale del divenire: l’inganno diviene in questo caso creazione del nuovo.

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L’attenzione di Walter Benjamin

La grande capacità che ha il cinema di moltiplicare i punti di vista e le verità è stata anche oggetto di studio di Walter Benjamin.

Nel suo testo del 1936, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, è già possibile individuare, in forma embrionale e comunque non ancora pienamente consapevole della portata semantica e strutturale, gli elementi che saranno centrali nell’opera di Deleuze:

«da un lato il film, ricorrendo a primi piani tratti da alcuni elementi del suo repertorio, accentuando certi dettagli celati in scene a noi consuete, esplorando ambienti banali grazie all’uso geniale dell’obiettivo, aumenta la comprensione degli elementi costrittivi che governano la nostra esistenza; dall’altro, riesce ad assicurarci un enorme e insospettato spazio di gioco. Le nostre osterie e le strade delle nostre metropoli, i nostri uffici e le nostre camere ammobiliate, le nostre stazioni e le nostre fabbriche sembravano volerci imprigionare senza via di scampo. Poi è arrivato il cinema e, con la dinamite dei decimi di secondo, ha disintegrato quel mondo che assomigliava a una prigione. […] Grazie ad essa – la cinepresa – facciamo esperienza dell’inconscio ottico, così come grazie alla psicoanalisi facciamo esperienza dell’inconscio pulsionale»[2].

F come Falso, di Orson Welles

Il film che Deleuze considera il manifesto del cinema come potenza del falso è F for Fake (1975), l’ultimo film completo di Orson Welles.

F for Fake si presenta come una sorta di documentario: Welles utilizza anche dei filmati girati a Ibiza nel 1968 da François Reichenbach per un film-inchiesta (mai realizzato) sulla falsificazione delle opere d’arte.

La presenza di scene che riprendono il regista mentre effettua il montaggio rendono ulteriormente evidente il carattere riflessivo del film sulle tematiche di vero e falso.

Come scrive Adriano Aprà, Welles riesce a farsi spazio e a imporsi come autore moderno proprio perché è stato uno dei primi a fondere «il concetto di cinema saggistico e […] quello del fake documentary»[3].

In alcune interviste, rifiutando la definizione troppo semplificante di documentario, Welles stesso ha infatti parlato di questo film come di un saggio sulla falsificazione, di una riflessione in cui il vero protagonista è il falso (nella sua relazione con l’arte).

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Alla finzione protagonista del film lo spettatore sente di dover aderire pienamente, di potersi abbandonare con fiducia.

Ed è proprio l’atto del guardare e del credere in ciò che si vede sembra essere il tema decisivo.

Il mockumentary, uno sguardo

Spesso, si utilizza il termine mockumentary (di cui ora si da solo una piccola definizione) per indicare i falsi documentari: fu Rob Reiner, in un’intervista rilasciata sul film This Is Spinal Tap[4], a definirlo con questo neologismo «ottenuto sostituendo al prefisso “rock” di rockumentary […] il termine “mock”, che come sostantivo significa “finto”, mentre come verbo sta per “prendersi gioco, fare il verso a”»[5].

Si può intuire, quindi, che è un genere sfruttato soprattutto dagli autori di parodie e di satira, anche se ha avuto anche qualche esempio horror (Rec, The blair witch project, ecc.).

Cira Pinto
[1] G. DELEUZE, L’Immagine-tempo, p. 164.
[2] W. BENJAMIN, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, trad. it. a cura di G. Schiavoni, Milano, 2013, pp. 114-115.
[3] A. APRÀ, Documentario, in Enciclopedia del cinema, 2° Volume, Roma, 2003, p. 368.
[4] This Is Spinal Tap è un falso documentario del 1984 diretto da Rob Reiner dedicata della semi-fittizia band heavy metal Spinal Tap.
[5] ROSARIO GALLONE, Rock & Mock: quando il duro si fa gioco, in Rock Around the Screen, Storie di cinema e musica pop, a cura di Diego Del Pozzo e Vincenzo Esposito, Napoli, 2009, pp. 102-103.