Terenzio e Menandro, figli simili di epoche diverse

Terenzio, autore di teatro latino del II sec. a.C., è stato uno dei personaggi meno compresi durante la propria epoca e maggiormente rivalutati a posteriori. Grande esponente del cosiddetto “Circolo degli Scipioni”, rappresentò e rispecchiò la rivoluzione che Roma stava vivendo sia politicamente che culturalmente: la conquista della Grecia e l’ellenizzazione del suo stesso mondo.

Il grande potere del suo teatro fu la capacità di portare sulla scena il valore principe di quella cultura che, sempre più, doveva essere definita ormai greco-romana: l’humanitas. Essa è un concetto di matrice essenzialmente filosofica, nato in scuola stoica, e corrispondente alla greca philantropia, ossia la capacità di riconoscere negli altri i nostri simili, e di aprirci verso una concezione dell’umanità come valore universale, da rispettare sempre.

Terenzio e il “maestro” Menandro

Grande campione di questa visione era stato, circa un secolo e mezzo prima, il suo “maestro” Menandro, che ad Atene aveva messo in scena le sofferenze universali dell’uomo, rivoluzionando quel mondo della commedia che fino a lui, in terra greca, aveva solo e soltanto parlato di polis. Menandro fu il primo, invece, a studiare e scandagliare l’uomo, non come Ateniese, non come Spartano, non come Beota (Aristofane, fatti da parte!), bensì come essere vivente dotato di una determinata sensibilità, di un intelletto che gli permette di amare e di soffrire, come tutti gli altri uomini.

È questo che Menandro e poi Terenzio cercano di far capire al proprio pubblico: il dolore e l’amore non sono mai egoistici, non riguardano mai soltanto noi stessi, ma toccano tutti allo stesso modo. Questa dovrebbe essere la spinta per tutti noi per aprirci all’altro, per comprenderlo, per ritenerlo uguale a noi, per portare insieme il dolore del mondo, senza considerare differenze sociali, economiche e di etnia. È questo il valore più sano dell’ humanitas: non soltanto l’educazione e “l’essere dabbene” di cui tanto parla Cicerone, bensì il mettere sempre al primo posto l’homo, l’anthropos, e riconoscere in noi la naturalezza, la spontaneità di provare verso di lui la philia, cioè l’affetto, o come diremmo oggi l’empatia.

L’humanitas nelle commedie

Lo aveva spiegato Menandro nell’Aspis, negli Epitrepontes, lo eredita ora Terenzio nell’Heautontimoroumenos, commedia cardine del suo pensiero. Cremete, infatti, riconoscendo in un altro personaggio, Menedemo, una profonda sofferenza, si propone di aiutarlo, ricevendo però un duro rifiuto dal lui, che lo invita a farsi gli “affari suoi”. E Cremete lo prende in parola, e gli risponde:

« Homo sum, humani nihil a me alienum puto »

(Sono uomo, è affar mio tutto ciò che riguarda l’uomo).

La fortuna successiva

Purtroppo Terenzio pagò il duro prezzo di vivere in terra di soldati più che di filosofi, e soccombette al ben più grande successo di Plauto, che puntava maggiormente sull’evasione comica, sulla risata, demonizzazione di tutti gli spettri che la Repubblica romana iniziava a percepire nel suo lento declino verso la crisi.Terenzio

Il nostro autore, per fortuna, ci è giunto lo stesso, rivalutato soprattutto in età umanistica (il nome da dove verrà?), insieme al più sfortunato Menandro, che per tradizione diretta è arrivato fino a noi solo nelle cosiddette “gnomai, cioè frasi estrapolate da commedie che, per il loro valore filosofico e educativo, erano studiate addirittura a scuola. Chissà se anche il nostro Terenzio fu ispirato da una di queste, quando la lesse…

« ὡς χαριὲν ἔστ’ἄντρωπος, ἄν ἄντρωπος ᾔ »

(Che cosa bella è l’uomo, quando fa l’uomo)

Alessia Amante