È anche perché, a metà tra l’aria burbera che di solito ha e una simpatia semplice e spontanea dispiegata generosamente, Jake è cresciuto in altezza, in esperienza, in talento, fin da quella celebre interpretazione cult che fu “Donnie Darko” (Richard Kelly – 2001). Dopo tanto tempo, si potrebbe persino dire che è facile affezionarsi a lui.
È da poco uscito il bruttino “Southpaw” (Antoine Fuqua – 2015), insieme a “Everest” (Baltasar Kormákur – 2015) e al trailer di “Demolition” (Jean-Marc Vallée – 2015).
Jack Twist fu messo in ombra da Ennis Del Mar in seguito, quando Heath Ledger morì ed esplose la paranoica ricerca in ogni suo film della manifestazione di quel talento promesso e non del tutto sviluppato, fermato
Duncan Jones dirige il nostro Jake in “Souce Code” (2011), facendone
Infine, è già stato notato quanto il suo Lou Bloom in “Lo sciacallo – Nightcrawler” (Dan Gilroy – 2014) sia straordinario. Asettico per quel che riguarda la morale o un qualunque scrupolo di correttezza, il reporter di cronaca nera esterna la propria ossessione nel non battere le ciglia, nell’essere ridotto a un burattino di pelle e ossa tenuto in piedi da un assurdo obiettivo.
È difficile catturare il cardine della straordinaria efficacia recitativa di Jake Gyllenhaal, ma forse un buon sostantivo per farlo, o almeno provarci, è proprio “sobrietà”. Di solito si fa notare come la tecnica attoriale americana preveda uno stile estremamente vicino alla quotidianità, che non conta molto spesso espressioni del viso e atteggiamenti eclatanti, ma che anzi si esprime in cenni minimi (un tipo di espressività che, comunque, di certo non riguarda gli italiani). Tale caratteristica a volte trae in inganno e rende non immediata la distinzione tra un bravo attore e uno mediocre.
Jake Gyllenhaal è un attore americano, “più americano” degli americani, potremmo aggiungere scherzando, in quando losangelino. In questo segue le regole generali e non compie molti slanci verso la teatralità accentuata. Non si può dire però che sia un minimalista, un pigro che può contare i tipi di personalità assumibili sulle dita di una mano. Anzi, sa dare un’impronta specifica a ogni film.
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In effetti, ci si fida di Jake Gyllenhaal, e questo succede probabilmente perché in ogni occasione dimostra di essere una persona genuina, soprattutto – è quello che ci interessa ora – dal punto di vista professionale.
Domanda: “[‘I segreti di Brokeback Mountain’] ha fatto discutere sul tuo orientamento sessuale. […] Lo hai preso come un complimento?”
Risposta: “Sì. È un enorme complimento, quando reciti qualcosa a cui le persone credono così profondamente. […] Se qualcuno ci crede, ci sei riuscito.“
Ecco cos’altro: come un vecchio narratore pacato, Jake Gyllenhaal sa raccontare la storia di chi impersona e coinvolgere chi lo ascolta. Capita che i suoi personaggi non abbiano un passato, come in “Prisoners”, o non camminino lungo trame convincenti, come in “Prince of Persia – Le sabbie del tempo” (Mike Newell – 2010), ma in qualche modo Jake Gyllenhaal non lo fa pesare: in quei nomi che non sono il suo ci si infila dentro e li muove, dotandoli di una qualche forma di anima piacevole da assecondare nel loro percorso… e, se proprio non è riuscito a edificare qualcuno in sala, è per lo meno stato di (davvero) ottima compagnia.
Chiara Orefice
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