Landolfi e la realtà allucinata de “la pietra lunare”

Non è strano anche che si possa dormire mentre la luna attraversa il cielo?

Nella storia della letteratura non sono mai mancate occasioni in cui il mondo sensibile e il mondo onirico si sono trovati uniti assieme. Quando nell’ordinarietà della vita compare un elemento che nella realtà stessa non trova riscontro allora avviene, secondo la lezione di Tzvetan Todorov, la creazione del perturbante.

Rimaniamo stupiti quando crediamo di aver visto una fata dentro il giardino di casa o ci spaventiamo quando una statua in un parco pubblico si muove all’improvviso, al punto da non discernere più la realtà dalla fantasia. Tutti questi elementi si ritrovano in un breve romanzo intitolato La pietra lunare, scritto da un autore di cui si parla poco: Tommaso Landolfi.

Tommaso Landolfi: vita di un “appartato”

Landolfi
Tommaso Landolfi (1908 – 1979)

Originario di una famiglia aristocratica legata ai Borbone, Landolfi nasce nel paesino di Pico (in provincia di Frosinone) nel 1908. Trasferitosi a Firenze si laurea in lettere nel 1932, con una tesi sulla poetessa russa Anna Achmatova. A causa di alcuni debiti di gioco (Landolfi frequentava spesso i casinò), cerca di risollevare la sua precaria situazione finanziaria con l’attività di traduttore dal russo. Allo stesso tempo si dedica anche alla scrittura: Nel 1937 pubblica la raccolta di racconti Dialogo dei massimi sistemi a cui segue, due anni dopo, La pietra lunare e Il mar delle blatte e poi, nel 1946, Le due zittelle .

Dagli anni 50 agli anni 70 si dedicherà ad un’intensa attività giornalistica, prima con la rivista Il mondo e poi con il Corriere della sera. Tuttavia, in questo arco di tempo, non cessa l’attività letteraria e pubblica sia opere in prosa (Cancroregina,Un amore del nostro tempo, Racconti impossibili) che in versi ( Viola di morte, Il tradimento). Colpito da un enfisema polmonare, muore a Ronciglione nel 1979 .

Si è già accennato al fatto che questo scrittore sia poco conosciuto dagli italiani. Uno dei motivi principali è che Landolfi adopera un linguaggio prezioso, aulico e ricercato, oltre al fatto che tratta temi spesso poco comprensibili per chi non possegga un’ampia cultura. Ma forse uno dei motivi che rendono Landolfi uno degli “animali rari” della nostra letteratura è il suo stesso carattere.

Infatti, nonostante avesse frequentato luoghi importanti come il caffè delle giubbe rosse e avesse vinto ben quindici premi letterari, Landolfi faceva di tutto per sottrarsi alle voci della vita caotica e per coltivare la serenità nel paesino di Pico. Uno scrittore che ha costruito su di sè la figura affascinante dell’ “uomo misterioso”, che agisce nell’ombra e lontano dalla luce.

La pietra lunare: una storia surreale dentro un romanzo provinciale

Pubblicato nel 1939, La pietra lunare si può annoverare tra le opere che rientrano nel cosidetto realismo magico. Quella narrata da Landolfi è infatti una storia che sembra reggersi sulla rappresentazione del dato reale (come potrebbe suggerire il sottotitolo del romanzo, scene della vita di provincia), ma che poi esplode in un caleidoscopio di situazioni magiche e stregonesche, rappresentazioni del mondo immaginario sommerso nella nostra mente.

Con questa preemessa seguiamo allora la vicenda di Giovancarlo, uno studente che è tornato nel paese natale di P. (da identificare con Pico) per trascorrervi le vacanze estive. Contraddistinto dalla timidezza il giovane trascorre le giornate in solitudine, compiendo lunghe passeggiate e dilettandosi nella stesura di versi.

Una sera, però, Giovancarlo conosce Gurù, un’affascinante ragazza che vive in un maniero abbandonato dove, in preda alla solitudine, si abbandona a lunghi canti e per questo motivo gli abitanti del paese credono che sia una specie di fattucchiera.

Giovancarlo, dopo essere riuscito a conquistare il cuore di Gurù, scoprirà però un suo bizzarro ed inquietante segreto. Una sera i giovani si trovano su una montagna e qui Giovancarlo scopre che Gurù non è una ragazza come le altre. Infatti, quando la luna è alta in cielo, la ragazza subisce una metamorfosi: le sue gambe umane vengono rimpiazzate da quelle di una capra e si trasforma, come lo stesso Landolfi suggerisce, in una “capra mannara“. Si tratta soltanto dell’inizio di un vero e proprio viaggio onirico, all’insegna dei misteri profondi ed oscuri della notte.

Lo straordinario nell’ordinario

Landolfi
Francisco Goya – “Il grande caprone” (1798)

Landolfi ci offre un mondo in cui realtà e fantasia si mescolano senza alcuna distinzione. Ma ciò che rende la pietra lunare interessante è il fatto che tale mescolanza sembri percepita dalle persone come un qualcosa di assolutamente normale.

Un buon esempio è il primo incontro tra Giovancarlo e Gurù all’inizio del romanzo. Il ragazzo è appena arrivato e si trova a casa di alcuni zii quando, ad un certo punto, “due occhi neri, dilatati e selvaggi” lo stanno osservando ” dal fondo dell’oscurità”. Sono gli occhi di Gurù la quale, entrata in casa, viene  accolta dai partenti di Giovancarlo. La fanciulla si siede e il giovane ne contempla l’attraente forma:

Il giovane seguì con viva soddisfazione la linea delle coscie affusolate, cui la stoffa aderiva strettamente, lasciò scivolare lo sguardo sul tornito ginocchio e s’aspettava ora di scoprire una caviglia esile, un piccolo piede.

Ma ecco che Giovancarlo, con un certo orrore, scopre il “segreto” di Gurù:

Invece… Il sangue gli si gelò nelle vene (…) . In luogo della caviglia sottile e del leggiardo piede, dalla gonna si vedevano sbucare due piedi forcuti di capra, (…)

Eppure, sembra che i suoi parenti non si siano accorti di questo particolare. Anzi, parlano con la ragazza tranquillamente. Non cambiano atteggiamento neanche quando Giovancarlo tenta di farglielo notare:

“Ma guardate dunque, siete ciechi?” urlò fuori di sé dando una spinta alla tavola (…) . Tutti, all’infuori di Gurù che aveva abbassato il capo, rimasero un momento a guardare non già le zampe di capra rimaste allo scoperto, ma piuttosto lui stesso a bocca aperta e non senza inquietudine, come si guarda un pazzo; quindi lo zio si chinò e, tributando paterni buffetti sulle zampe della fanciulla (…) “eh eh” ripeté (…) e intanto continuava a guardare Giovancarlo, non risucendo assolutamente a spiegarsi le sue furie.

Quello che quindi il lettore si ritrova davanti è uno scenario quasi impossibile da decifrare. Non si capisce se Giovancarlo sia sotto l’effetto di un’allucinazione o se l’elemento fantastico sia cucito nel tessuto della realtà fin dall’origine.

Landolfi e Leopardi: due “lunatici” a confronto

Landolfi
Giacomo Leopardi (1798-1837)

Il romanzo di Landolfi si chiude con un’appendice dal titolo Dal giudizio del Signor Giacomo Leopardi sulla presente opera. Qui il poeta di Recanati “parla” tramite alcuni frammenti tratti dallo Zibaldone, tutti riguardanti la luna. Particolare è questo estratto:

“un uomo tanto meno sarà grande quanto più sarà dominato dalla ragione; tutti quelli che possono esser grandi nella poesia e nelle lettere devono esser dominati dalle illusioni. (…) Mentre l’uomo si allontana da quella puerizia in cui tutto è singolare e meraviglioso, in cui l’immaginazione sembra non abbia confini, allora l’uomo perde la capacità di esser sedotto, diventa artificioso, cade tra le branchie della ragione che gli va a ricercare tutti i segreti della realtà. Ma questo senno e questa esperienza sono la morte della poesia”.

Leopardi afferma che il poeta deve, per essere tale, riscoprire la meraviglia verso la magia e l’ignoto intrisi nella natura e abbandonare il freddo raziocinio, capace solo di produrre poesia fredda e troppo legata a certi schemi. In un certo senso questa è anche la poetica di Landolfi. Come si è già avuto occasione di affermare, lo scrittore pugliese usa un linguaggio ricco e prezioso, ma non si limita solo a questo. Usa anche tecniche di linguaggio che fanno avvicinare lo stile di scrittura più alla poesia che alla prosa, come l’asindeto (1):

(…) una pena senza nome un’infinita pietà un dolore sconosciuto; torcendolo rovesciandolo; piegarlo deformarlo torcerlo; fiorenti incarnati lionati (…)

L’altro punto che accomuna Landolfi a Leopardi è ovviamente la luna. Ma quest’ultimo ci offrì un’immagine umana del satelitte della terra che, con la sua luce, permette al poeta di scavare nel suo intimo.

O graziosa luna, io mi rammento

che, or volge l’anno, sovra questo colle

io venia pien d’angoscia a mirarti:

(…)

Ma nebuloso e tremulo dal pianto

che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci

il tuo volto apparia, che travagliosa

era mia vita: ed è, né cangia stile,

o mia diletta luna. E pur mi giova

la ricordanza, e il noverar l’etate

del mio dolore. (…)

In Landolfi invece la luna non è umana, ma magica. Questa magia viene proiettata sulla terra, attraverso le immagini di Gurù, dei fauni e delle altre creature che popolano le montagne di P. Anche qui la luna guarda nell’intimo dell’uomo, ma allo scopo di fargli riscoprire la natura animale nascosta nel profondo della sua anima. Non più la luna “amica” di Leopardi, ma la luna “misteriosa” e le sue devote creature dell’immaginario landolfiano.

Ciro Gianluigi Barbato

Note

(1) Figura retorica con cui si elencano termini o coordinazioni senza l’aggiunta di virgole o preposizioni.

Bibliografia

T. Landolfi – La pietra Lunare. Scene della vita di Provincia – Adelphi

G. Leopardi – Canti (Introduzione, note e commenti di Fernando Bandini) – Garzanti