Villon, il tempo e “Le testament”

(…)

Uomini, qui non c’è scherzo né scherno;

pregate Iddio perché voglia assolvere!

Questi versi finali de La ballata degli impiccati chiudono Le Testament, l’opera più importante di un poeta francese del Medioevo noto come François Villon.

Leggendo questi due versi si potrebbe pensare ad un poeta raffinato e sensibile, capace di cogliere il sentimento dei condannati oramai prossimi al trapasso. In realtà, se si leggono gli altri suoi componimenti, abbiamo un’immagine diversa di Villon: quella di un giovane scavezzacollo insofferente all’ordine e più dedito al vino, alle belle donne e a tirare pugni nelle numerose risse in cui è coinvolto. Si tratta di un ritratto suggerito soprattuto dalle poesie de Le Lais, ma si commetterebbe un enorme errore nel considerare Villon un “poeta da osteria”.

Anche se la sua poesia è intrisa di una certa ironia che sfocia nella caricatura e nella parodia, Villon ha occasione di poter riflettere su argomenti “alti”: la pietà verso Dio, lo scorrere inesorabile del tempo, l’inevitabilità della vecchiaia e della morte, tutti argomenti che costitutiscono l’ossatura de Le Testament.

La “vita spericolata” di Villon

Villon
Ritratto di Francois Villon

Nato tra il 1431 e il 1432, il suo nome era in origine François de Montcorbier. Compì gli studi sotto la protezione del cappellano Guillaume de Villon, da cui adotterà il cognome. Nel 1449 viene nominato bacelliere alla Faculté des Arts di Parigi e nel 1452 diventa maestro. Dopo questa data la sua vita è segnata soprattutto da problemi con la legge: Il 5 giugno del 1455 uccide un prete durante una rissa e fugge da Parigi, salvo poi tornarvi l’anno seguente. Dopo un furto compiuto la notte di natale al Collége de Navarre lascia di nuovo Parigi, dove si rifugia a Blois presso la corte di Giovanni II di Borbone.

Villon
Riproduzione del Collége de Navarre (XVI sec.)

Nel 1461 a Meung finisce ancora una volta in prigione, per mano del vescovo d’Orléans Thibaut d’Aussigny. Non conosciamo il motivo della sua incarcerazione, ma il 2 ottobre dello stesso anno viene liberato per volere del sovrano Luigi XI. L’anno seguente viene incarcerato nuovamente per il furto al Collége e il 5 gennaio del 1463 viene condannato all’impiccagione per aver assassinato un notaio pontificio. Tuttavia Villon ricorre in appello e riesce a trasformare la sua pena in dieci anni di bando. Dopo l’emissione della condanna, Villon lascia definitivamente Parigi e da quel momento non si hanno più notizie di lui, al punto che non conosciamo neanche la data effettiva della sua morte. Invece non vi è alcun dubbio che tutte queste informazioni biografiche hanno alimentato, nel corso dei secoli, il mito di un Villon “poeta maledetto“.

Le Testament

Un'edizione de "Le Testament"
Un’edizione de “Le Testament”

Composto durante la prigionia a Meung tra il 1461 e il 1462 Le Testament è diviso in 186 ottave, in cui sono inserite 15 ballate e 3 rondeaux, per un totale di 2023 versi.

La dura esperienza del carcere è un’occasione che Villon usa per approfondire tematiche di un certo spessore. Il poeta riflette innanzitutto sulla gioventù che ha sprecato tra bagordi e ubriacature, conscio del fatto che il tempo perduto non potrà essere recuperato. Lo scorrere inesorabile del tempo diventa così uno dei leitmotiv principali di tutta l’opera, il rimpianto di aver fatto delle scelte sbagliate e di pagarne le conseguenze, rappresentate dalla povertà e dalla galera.

Rimpiango il tempo di giovinezza,

(quando menai vita sfrenata

fino all’arrivo di vecchiezza);

la sua partenza me l’ha celata.

A piedi, certo, non se n’è andata,

né a cavallo: ahimé, dunque, come?

Subito via se n’è volata

senza lasciarmi almeno un dono.

Se n’é andata, ed io rimango,

privo di senno e sentimento,

ridotto nero, triste, stanco,

e non ho averi, rendite, censo

(…)

Dio, se avessi studiato

al tempo della giovinezza folle,

e sulla retta via camminato,

casa ora avrei e letto molle.

Macché, marinavo la scuola

come un qualunque monello fa.

E nello scrivere questa parola

mi sento il cuore rompersi già.

Ma non è solo il tempo a portarsi via tutto e tutti: è soprattutto la Morte (nominata con l’iniziale maiuscola, quasi come se fosse un personaggio vero e proprio) a cancellare i valori dell’esistenza stessa. Poco importa il rango sociale a cui si appartiente: lo scheletrito cavaliere, soggetto tanto caro ai pittori del ‘300 che si cimentarono nei cicli del trionfo della morte,  falcerà tutti quanti cavalcando il  suo inquietante destriero.

(…)

Io ben so che ricchi e poveri,

savi e folli, preti e laici,

noti e oscuri, avari e prodighi,

alti e bassi, belli e laidi,

dame con la scollatura,

qual che sia la loro sorte,

con qualunque acconciatura,

afferrati son da Morte.

(…)

Villon
Bartolo di Fredi – “Trionfo della morte” (Chiesa di S.Francesco a Lucignano)

Inoltre la Morte annulla ogni valore della vita, negativo o positivo che sia. A cosa serve abbandonarsi ai piaceri o lavorare sodo, se l’oscuro mietitore è sempre pronto a strappare via l’uomo dall’esistenza? Alla fine diverremo tutti quanti polvere. Ecco il motivo portante di uno dei tre rondeaux:

Qui riso e burla non stan davvero

Che valse loro aver sostanze,

e dentro ricchi letti godere,

mandar giù vini in grosse pance,

menar sollazzo, e feste, e danze,

e a gioire ognora e esser pronti?

Tutte svaniscono le dilettanze ,

e tuttavia la colpa conta.

(…)

La fugacità del tempo nelle Ballades

La composizione del Testament è intervallata dalle ballate, che non molto si discostano dalle tematiche principali dell’opera. La Ballata dei signori di un tempo è il nostalgico rimpianto nei riguardi di persone e personaggi rinchiusi nel loro tempo e nel loro spazio, i quali mai più potranno tornare. Ecco allora Villon che richiama alla memoria i sovrani di un tempo, su cui primeggia uno in particolare e il cui nome costituisce il ritornello della ballata:

Che più, dov’è il terzo Calisto,

che morì ultimo di tal nome,

e fu quattr’anni sul Papalisto?

Il re Alfonso d’Aragona,

(…)

Ma dov’è il prode Carlo Magno?

Villon
Ilustrazione per “La ballata degli impiccati”

Ma come si è accennato all’inizio, la più importante delle quindici ballate è quella dal titolo Epitaffio Villon o Fratelli umani, che in epoca romantica verrà poi rinominata con il titolo con cui è meglio conosciuta: La ballata degli impiccati. Comparsa per la prima volta in un edizione del 1485, la ballata richiama sicuramente alla mente la condanna a cui Villon fu destinato nel 1463. Ma sarebbe del tutto sbagliato collegare la stesura della ballata al solo timore del poeta nei confronti del cappio: dovremmo invece considerarla come un messaggio di fratellanza tra tutti gli uomini, messaggio dettato dai morti ai vivi. Si va così a creare un senso di appartenenza ad un destino comune, un invito a non volgere lo sguardo altrove e a non farsi beffa di una condizione così drammatica.

Fratelli umani, che vivete ancora,
Non siate contro noi duri di cuore,
Ché, se pietà di nostra sorte avrete,
Più largo sarà Dio del suo perdono.
Qui appesi ci vedete, cinque, sei.
La carne, che troppo abbiam nutrita,
Da tempo è divorata e imputridita.
Le nostra ossa saran presto cenere.
Della sventura nostra non ridete,
Ma Dio pregate che assolva tutti noi!

(…)

La pioggia ci ha lavato e dilavato
E il sole resi bruni e rinsecchiti.
Le gazze e i corvi gli occhi ci han cavato
E strappato la barba e fin le ciglia.
Non un solo momento abbiamo pace.
Di qua, di là, come si muta , il vento
A suo piacer ci mena senza posa.
Beccati degli uccelli più che anelli.
Di nostra compagnia non fate parte!
Ma Dio pregate che assolva tutti noi!

La ballata degli impiccati. Da Villon a de André

Nel 900 la poesia di Villon ha influenzato molti artisti non solo sul piano della letteratura, ma anche in quello della musica. Nella stessa Francia basti pensare a George Brassens, il quale mise in musica la ballata delle dame di una volta. Lo stesso esempio di Brassens è stato seguito dal nostro Fabrizio de Andrè.

Villon
Fabrizio de André (1940 -1999)

Nell’album Tutti morimmo a stento del 1968 è contenuta una canzone intitolata proprio La ballata degli impiccati. Ecco come de Andrè ne narra l’origine:

CARO FRANCOIS

Nel 1963 mi capitò di leggere su un quotidiano che in Sudafrica le autorità celebravano senza saperlo il cinquecentesimo anniversario della tua scomparsa: la corte di Johannesburg aveva destinato all’impiccagione otto presunti malviventi, naturalmente neri. L’estensore dell’articolo  così descriveva il disperato infantile esorcismo del loro terrore: “Ballavano e cantavano sotto le corde prima di essere appesi” (…) “Scalciarono per un pò, alcuni sono durati un attimo, altri qualche minuto”. Mi prese la rabbia giusta per scrivere una ballata.(…)

Ecco allora che Villon rivive e lo fa attraverso de Andrè, e così la sua di Ballata degli impiccati. Infatti bisogna dimenticarsi del pietismo e dell’umanità con cui Villon aveva caratterizzato i suoi condannati; il cantante genovese ci mostra dei condannati pieni di odio, che bestemmiano e augurano la stessa sorte a chi li ha condannati al patibolo, senza avere il desiderio che Dio abbia pietà delle loro anime.

Se però bisogna trovare qualcosa che accomuni idealmente i due autori è la stessa concezione che hanno del condannato a morte. Non più la figura del bandito condannato ad un’esemplare punizione, ma quella di un uomo che cerca la comprensione di chi li osserva nonostante il reato commesso.

(…)

Chi derise la nostra sconfitta
e l’estrema vergogna ed il modo
soffocato da identica stretta
impari a conoscere il nodo.

Chi la terra ci sparse sull’ossa
e riprese tranquillo il cammino
giunga anch’egli stravolto alla fossa
con la nebbia del primo mattino.

La donna che celò in un sorriso
il disagio di darci memoria
ritrovi ogni notte sul viso
un insulto del tempo e una scoria.

(…)

Ciro Gianluigi Barbato

Bibliografia

Francois Villon – Poesie (Prefazione di Fabrizio de André – Traduzione, introduzione e cura di Luigi de Nardis) – Feltrinelli

Michel Zink – La letteratura francese del medioevo – Il Mulino