Veronica Franco: Poetessa o cortigiana?

E se ben “meretrice” mi chiamate,/o volete inferir ch’io non vi sono,/o che ve n’en tra tali di lodate/Quanto le meretrici hanno di buono/quanto di grazioso e di gentile,/esprime in me del parlar vostro il suono.

Veronica Franco
Veronica Franco

A tutti quelli che le facevano pesare il mal costume dell’essere cortigiana; a chiunque la denigrasse in pubblico per poi cercarla al tramonto, Veronica Franco rispose sempre a tono, con un’ironia disarmante, perché non aveva niente da rimproverarsi e neppure da nascondere. La Franco fu una “cortigiana honesta”, laddove per honesta si deve intendere nell’accezione di “colta”.

E dunque ecco la prima sostanziale differenza con le altre sue “colleghe”: Quel profondo bagaglio culturale di cui era provvista la fece volare alto, ma quando si avvicinò troppo al sole, le sue ali di cera si sciolsero, e lei cadde rovinosamente a terra.

Le liriche petrarchesche

Veronica Franco è ricordata nei libri di letteratura assieme con Vittoria Colonna, Isabella di Morra, Veronica Gàmbara e Gaspara Stampa per aver inaugurato una nuova stagione poetica tutta al femminile. La scelta dello stile petrarchesco non fu casuale: Esso era nato dall’esaltazione dell’amore da parte dell’uomo e, dunque, nel riutilizzo di tale schema le donne vi vedevano la possibilità di partecipazione alla vita di coppia.

Attraverso la poesia le donne si ritagliavano un certo spazio di autonomia, che rimane comunque circoscritta nell’ambito letterario. Da un punto di vista sociale la situazione non era cambiata.

Anche le cortigiane colte si dedicarono a quest’attività, e Veronica Franco fu una di queste.

Veronica Franco
Vittoria Colonna

Nei suoi scritti si evince una certa soddisfazione per la posizione raggiunta, il tutto filtrato attraverso un linguaggio scorrevole e brioso.

Benché avviata a tale professione –dalla stessa madre, cortigiana a sua volta– in giovane età, la Franco non si pentì mai della strada percorsa, un cammino che “salvava” molte donne dell’epoca dalle uniche due possibilità che gli si palesavano davanti: Sposarsi, quando si aveva una dote adeguata, e rimanere segregata in casa dal marito, tirata fuori solo in determinate occasioni.

Nel caso in cui la famiglia della donna non potesse permettersi di farla sposare, quest’ultima finiva in convento, e la vocazione se la faceva uscire.

Di fronte all’impossibilità di scegliere in prima persona del proprio destino, c’era la “terza via” della prostituzione, talvolta una condanna anch’essa, ma nel caso della Franco parliamo dei piani alti.

Liberi dai pregiudizi, cercheremo di fare chiarezza sul cosa significava nella Venezia del ‘500 essere cortigiana, soffermandoci, ovviamente, sull’esperienza di Veronica.

Veronica Franco: una cortigiana rispettabile

I genitori di Veronica, Francesco e Paola Fracassa, erano di estrazione medio –borghese, e dunque facenti parte dei cosiddetti cittadini originari, una classe sociale piuttosto eterogenea, comprendente il popolo tutto, sia esso grasso o minuto. Ebbero altri tre figli. Girolamo, Orazio e Serafino. Veronica nacque a Venezia nel 1546 e ben presto andò in sposa a Paolo Panizza, un medico, ma il loro matrimonio finì poco tempo dopo.

Veronica Franco
Catherine Mccormack ha vestito i panni di Veronica Franco del film del 1998 “Padrona del suo destino”

Preoccupandosi del futuro della figlia, la madre Paola trovò più conveniente iniziarla al mestiere di cortigiana, a quanto pare con grande successo, tanto è vero che il nome della Franco compare nel “Catalogo de tutte le principal et più honorate cortigiane di Venetia”, una vera e propria lista stilata nel 1565 che raccoglieva il nome, la via e la tariffa di tutte le cortigiane veneziane. Al nome della Franco corrispondeva tale dicitura:

“Veronica Franca, a Santa Maria Formosa, pieza so mare, scudi 2”

“Pieza” ovvero “mezzana” fu, come abbiamo già detto, sua madre. Intorno alla tariffa si è discusso parecchio, poiché due scudi era un prezzo inaccettabile per una cortigiana “media”, figuriamoci per una così ricercata come Veronica.

Non si sa con certezza se esso sia stato semplicemente un errore dell’anonimo autore oppure se egli l’abbia fatto di proposito per insultarla. Com’è che sia andata non importa; fatto sta che la Franco conquistò tutta Venezia, si arricchì e frequentò i più famosi circoli letterari della città. In modo particolare era legata a quello dei “Ca’ Venier”, gestito da  Domenico Venier, poeta, e protettore della Franco. Il fratello, Marco Venier, subì a sua volta il fascino di Veronica, e spesso compare nei suoi versi d’amore.

“S’io v’amo al par de la mia propria vita,

donna crudel, e voi perché non date

in tanto amor al mio tormento aita?

E se invano mercé chieggio e pietate,

perch’almen con la morte quelle pene,

ch’io soffro per amarvi, non troncate[..]? [1]

 E la risposta della Franco:

“[..] Aperto il cor vi mostrerò nel petto,

allor che ‘l vostro non mi celerete,

e sarà di piacervi il mio diletto[..]” [2]

Rufus Sewell ha interpretato Marco Venier

Ma a cosa doveva tutto il suo successo? E perché era considerata una cortigiana rispettabile?

Indubbiamente grazie alla sua cultura, e questo le permise di essere annoverata fra le sopracitate “cortigiane honeste”, categoria distinta dalle semplici “cortigiane di lume”.

La differenza sostanziale fra questi due gruppi era che al primo facevano capo donne che avevano studiato e, come nel caso di specie della Franco, avevano composto a loro volta dei versi. Pubblicò due raccolte poetiche, “Terze Rime” e “Lettere familiari a diversi”.

Ridurre, però, all’osso la loro attività sarebbe ingiusto, poiché se è vero che il mestiere di base era sempre lo stesso, non è possibile dimenticare tutto il “contorno”. Erano donne che avevano scelto la via della libertà, che nella società cinquecentesca significava sottrarsi alla potestà del marito.

Un concetto di libertà, questo, da prendere con le pinze se paragonato ai tempi nostri.

Le “cortigiane di lume” erano le prostitute classiche, nel senso canonico del termine. Erano così chiamate perché per distinguersi dovevano accendere una candela alle loro finestre.

Venezia, una città (in)tollerante

Quando Enrico III di Valois, quarto figlio di Caterina De’ Medici ed Enrico II, lasciò la Polonia per giungere in Francia e assumerne la corona, passò per Venezia dove ebbe modo di conoscere la bellissima Veronica Franco, la quale gli dedicò due sonetti contenuti all’interno delle Lettere. Pare che lo stesso patriziato veneziano combinò l’incontro, dopo il quale la Franco venne considerata quasi una eroina diplomatica della Serenissima.

Veronica Franco
Enrico III di Valois

E quella città che l’aveva così tanto osannata riuscì a difenderla anche quando nel 1577, rientrata a Venezia a seguito di un’epidemia di peste, venne accusata di stregoneria dall’Inquisizione. Veronica portò avanti la sua difesa, ma questa da sola non sarebbe bastata a salvarla dal rogo, se non fosse intervenuta la parte che conta della città in suo soccorso, la stessa che aveva goduto dei favori della Franco.

Ma durante l’assenza da Venezia la sua casa era stata saccheggiata, e Veronica, assieme alla freschezza della gioventù, perse anche molti dei suoi possedimenti. Si spense nel 1591, a seguito di una febbre, non in condizioni di assoluta indigenza, ma sicuramente molto lontana dallo splendore che l’aveva accompagnata in passato.

Roberta Fabozzi

Fonti:

[1] Del Magnifico Messer Marco Veniero  alla signora Veronica Franca, Terze rime

[2] ibidem