Letteratura greca

Odissea: la discesa nel regno dei morti del libro XI

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La grandezza di un atto d’astuzia è ormai conosciuta. Allo stesso modo bisogna tener presente che questi slanci di furbizia mantengono un loro stampo di sacra classicità. Odisseo, la volpe dell’Ellade, colui che portò alla rovina Troia, va considerato un fiore all’occhiello nel panorama omerico. Di qui, lo straordinario successo dell’Odissea, il poema che porta il suo nome, un nome dal multiforme ingegno.

L’ Odissea: la Struttura

Come la sorella Iliade, anche l’Odissea è composta da ventiquattro libri. Non sono più le vicende della guerra a scandire tempo e anima, siamo piuttosto dinanzi alle peripezie e le riflessioni di un viaggio. Si ricordi infatti che l’Odissea è vicina ai Nostoi, particolare raccolta di cicli epici caratterizzati dal tema, possiamo dire, del “ritorno”e in cui i grandi campioni achei tentano di riabbracciare la terra natia, dopo la vittoria conseguita sul regno di Priamo.  E quale sorpresa se proprio la cara Nostalgia vien su da nostos (ritorno) e elgia (dolore)? Questo unico termine, sconosciuto al mondo classico, può racchiudere tutto il valore morale della traversata omerica.

Lo spettro della Morte

Se dovessimo analizzare una parte di questo viaggio e se dovessimo entrare in comunione con le diverse sensazioni che vi prendono parte, dovremmo fermarci un secondo allo squarcio provocato dal libro XI, quando Odisseo si cala nel regno dei morti e assiste ad una visione terribile. Sappiamo che l’eroe ha dimostrato la sua astuzia contro il ciclope Polifemo, sappiamo anche che è riuscito a svincolarsi dai gioghi della maga Circe e che, sotto consiglio di quest’ultima, ha deciso di scivolare nelle contrade del buio per incontrare il saggio Tiresia. E senza preavviso eccola, ecco l’ombra della madre vinta dall’angoscia:

 Io, pensando tra me, l’estinta madre

Volea stringermi al sen: tre volte corsi,
Quale il mio cor mi sospingea, ver lei,
E tre volte m’usci fuor delle braccia,

Come nebbia sottile, o lieve sogno.
Cura più acerba mi trafisse, e ratto,

Ahi, madre, le diss’io, perchè mi sfuggi
D’abbracciarti bramoso, onde anco a Dite,
Le man gittando l’un dell’altro al collo,
Di duol ci satolliamo ambi, e di pianto?
Fantasma vano, acciò più sempre io m’anga,
Forse l’alta Proserpina mandommi? [1]

Siamo ben oltre il pathos eroico, ci troviamo alle porte di una visione che riassume l’intera opera. Se Itaca fa da obiettivo ultimo, la madre incarna ogni tensione umana. L’uomo, che nell’Odissea ha vinto persino il Destino e si è fatto quasi beffe degli dei, adesso cerca di stringere la rosa del sonno eterno. Questa è la tua patria, qui combatte la tua furbizia, nel regno dell’illusione.

Le figure femminili

Ma il tormento è reso dolce da un canto che s’alza dal mare. Le fameliche sirene non possono certo essere relegate a quell’unico episodio del libro XII; esse mutano forma nelle diverse figure femminili del poema, ora le vediamo con bianche braccia, ora circondate da incanti e ora languide in attesa. Le donne sono tra i più grandi distruttori del ritorno ad Itaca e si pongono come una vera schiera di ancelle.

Si passa da Nausicaa, una vera apparizione d’innocenza e volto di Xenia alla tremenda e sensuale maga Circe che dimora tra lusso e incubo. Ancora, la ninfa Calipso, quasi una figura eterea come etereo il dono immortale offerto all’eroe, lei fuoco d’amore che danza tra le erbette in una grotta. Ultima e non certo meno importante, la moglie Penelope, sinolo di virtù e bellezza, madre devota e sfortunata coniuge. Riusciamo ancora a vederla filare il suo arazzo, lì dove il sole greco tramonta e il mare si acquieta.

La voce dei posteri

Parlare delle reazioni postume meriterebbe diversi volumi, teniamo presente almeno i rifacimenti o le influenze più significative. Tralasciando la produzione epica (giacché sarebbe quantomeno ovvia la presenza volontaria o involontaria di riferimenti omerici), citiamo dalla lontana Inghilterra Tennyson e il suo poema Ulisse o l’opera i Mangiatori di Loto; direttamente dalla tumultuosa Irlanda, inutile dirlo, Ulysses di James Joyce; dalla nostra Italia, Pascoli e L’ultimo Viaggio dai Poemi Conviviali; Gozzano e L’ipotesi dalle Poesie Sparse.

Non dimentichiamo che il viaggio di Odisseo passa lento nella nostra memoria al pari di un ricordo infantile o di un sogno.  E credo sia ben giusto chiudere con alcuni versi di una bellezza e di una verità tali da lasciarci basiti:

Ospite, i sogni sono vani, inspiegabili:

non tutti si avverano, purtroppo, per gli uomini.

Due son le porte dei sogni inconsistenti:

una ha battenti di corno, l’altra d’avorio:

quelli che vengono fuori dal candido avorio,

avvolgon d’inganni la mente, parole vane portando;

quelli invece che escon fuori dal lucido corno,

verità li incorona, se un mortale li vede. [2]

[1] Omero; Odissea, Libro XI

[2] Omero; Odissea, Libro XIX

 

Silvia Tortiglione

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Silvia Tortiglione

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