Morte a Venezia di Luchino Visconti: l’arte si inchina al bello

Morte a Venezia, il capolavoro di Visconti

C’è un momento in cui un grande regista “nazionale”, raggiunge notorietà internazionale grazie ad opere che diffondono il suo nome in tutto l’ambiente culturale mondiale. E’ il caso di Luchino Visconti, l’agiato nobile marxista, contraddittorio nella vita come nel cinema, iniziatore ideale del neorealismo. Regista cinematografico e teatrale dall’indiscusso talento che con Morte a Venezia raggiunse una certa fama internazionale. Tratto dal romanzo di Thomas Mann, il film è diretto dal cineasta italiano, del quale è anche sceneggiatore insieme a Nicola Badalucco. Fotografia e montaggio affidati rispettivamente a Pasquale De Santis e Ruggero Mastroianni. Come le altre opere del regista lombardo, Morte a Venezia offre ad un certo tipo di spettatore, una grossa gamma di riflessioni e speculazioni.

Venezia, inizio novecento, Gustav Von Aschenbach (Dirk Bogarde), compositore tedesco ormai vicino alla vecchiezza, si trasferisce nel capoluogo veneto per riprendersi da un periodo particolarmente nervoso per lui. Prende così alloggio in un lussuoso hotel, proprio di fronte al mare, ove risiede una nobile polacca (Silvana Mangano) con i propri figli e la servitù. L’attenzione del compositore è però rivolta subito al figlio della nobildonna, un adolescente pallido e dai lunghi capelli biondi, di nome Tadzio (Bjorn Andersen). Dall’interesse si passa ad un’estasiatica ammirazione e il musicista passa così parte del suo tempo ad osservare il giovane. Un’ammirazione che finisce per prevalere su ogni ritegno e Gustav Von Aschenbach decide di entrare in contatto con il giovane. Intanto però il compositore ignora un’epidemia di colera che sta decimando e consumando una città, lo stesso compositore contagiato dal morbo muore.

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La musica in una Venezia malinconica

Il film, per certi aspetti biografico, trasforma lo scrittore protagonista in musicista. I numerosi flashback inseriti durante la pellicola spezzano la narrazione e aumentano la nostalgia e pure il mistero del racconto. Siamo di fronte ad una maestosa opera in cui Visconti riesce a rappresentare con eccezionale maestria il grande tema dell’arte, di una vita vissuta per l’arte, la quale capitola all’incontro con il bello, portando delle conseguenze devastanti. Oltre a quello dell’arte, il regista riprende anche altri temi da lui esplorati in altri lavori, quali quello della memoria, quello dell’omosessualità legata all’estetismo, il rapporto bellezza e morte, inseriti in una cornice funerea e sontuosa.

Lo strumento essenziale di quest’opera, quello che consente a Visconti di rappresentare questo dramma, lo streben di questo musicista, è la musica di Gustav Mahler. La quinta sinfonia di Mahler accompagna i titoli di testa e l’arrivo di Aschenbach a Venezia, durante un’alba estiva e umida, si ritrova durante il film per sottolineare i momenti più importante, compresa la memorabile e emozionante scena finale. La staticità che caratterizza la Venezia viscontiana, esalta la scelta musicale di Visconti, che si va ad inserire in un mondo che sembra perdere la sua staticità al suono della musica. Del resto la musica è importante anche dal punto di vista narrativo; Aschenbach è un musicista,  ha la pretesa di esprimere con la sua musica un ideale di bellezza e nei continui flashback è possibile scorgere la sua weltanschauung artistica in opposizione a quella dell’amico. Alla fine è  proprio questa ossessione per la perfezione artistica, per la ricerca del bello, che mette in crisi il musicista: l’incontro con Tadzio, infatti, costringe il musicista a riconoscere che nel giovane convivono perfezione estetica e sensualità,è l’incontro con l’impensabile, lo svelamento dell’impossibile.

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Le riprese, realizzate nel formato scope (formato anamorfico), catturano l’immagine di una Venezia estiva, caratterizzata da un cromatismo sbiadito e da un’atmosfera distesa e sensuale; lenti zoom e accurati movimenti della macchina da presa accompagnano la musica nello sviluppo della storia. I dialoghi sono ridotti all’osso, così come manca una voce narrante o un monologo interiore. È il trionfo della musica, dell’espressività mimica, delle immagini sulle parole. L’immedesimazione e il coinvolgimento del regista in quest’opera è tanto forte, tale da permettergli di reinterpretare il testo di Mann, dandogli una propria impronta, soprattutto riguardo il tema dell’omosessualità, come anche il tema della pedofilia, che in Mann si mescola al tema della gioventù, mentre nell’opera viscontiana diventa un gioco enigmatico.

Resta a distanza di anni la sublimità di questo film, che nonostante secondo molti tradisca lo spirito dell’opera di Mann, sa sempre coinvolgere attraverso le sue musiche, le sue immagini malinconiche e la memorabile interpretazione di Dirk Bogarde, che non stanca mai di mostrarci la contraddizione e la tragedia vissuta da Aschenbach, una ricerca della perfezione pagata con la vita, rappresentata con una scena finale distruttiva per il protagonista e per lo spettatore, ormai completamente coinvolto nella bellezza di questo film.

Roberto Carli