La morte nell’Eneide: Anchise e il suicidio di Didone

Quale uomo non ha coscienza della fine? Al pari di un mucchio di cenere che langue sull’altura dei monti o tra i fini bisbigli del prato, tale si presenta la vita. E la nostra esistenza non comprende solo gli attimi del quotidiano, ma anche l’impeto creativo che si esplica nei progetti di un’anima grande – giacché tutti possediamo uno spirito vincente. Ma è il fato ad intervenire anche nell’epilogo, a decidere le sorti di una donna, di un bambino, di un libro. Fortunata Eneide! Che venisti salvata dalle fiamme per un caso d’amicizia.

 Eneide, Anchise

L’Eneide, le fiamme e la struttura

Potremmo affermare che le fiamme sono il leitmotiv dell’opera. Immaginiamo le fiamme di Troia e il buon Enea che fugge con il vecchio padre Anchise e il figlioletto Ascanio; creiamo ai nostri occhi l’antico fuoco della regina Didone; sprofondiamo tra i fumi del tartaro e disegniamo le scintille dell’ultima battaglia in Lazio. Dodici libri di tensione e puro slancio, ma anche dodici libri di disciplina stilistica ed erudizione.

Il mito di Roma e l’encomio della stirpe Giulio-Claudia nascono dal continuo elaborare leggende passate, non mancano infatti riferimenti alla produzione epica greca. Va comunque ricordato che l’Eneide presenta una struttura “invertita” rispetto ai capolavori omerici: i primi sei libri trattano di un viaggio (Odissea) e gli ultimi sei colgono le diatribe belliche (Iliade).

 Eneide

Il terzo libro: Polidoro e Anchise

Le peripezie legate alla fuga di Enea, sono ben conosciute. Credo sia giusto soffermarsi almeno sui libri III e IV. Nel terzo libro ci troviamo dinanzi a due quadri degni di nota: il ricordo di Polidoro e la morte di Anchise. Questo Thanatos, che nell’Eneide ricorre senza posa in un ciclo continuo, porta alla gloria entrambi gli episodi:

Ahi! perchè sì mi laceri e mi scempi?
Perchè di così pio, così spietato,
Enea, vèr me ti mostri? A che molesti
Un ch’è morto e sepolto? A che contamini

Col sangue mio le consanguinee mani?  [1]

 Facile attingere dalla nostra memoria le parole di Pier delle Vigne nella Commedia, leggermente più velato il riferimento del canto XIII della Gerusalemme Liberata. Bisogna ammettere che da questi versi s’alza una dignità, un tormento senza pari.

Veniamo ora in poche righe alla morte di Anchise. Non si tratta di semplice cordoglio, Virgilio coniuga la dolcezza dell’abbandono e il tremendo ricordo della passata guerra. Ghirlande, lance, scudi, fughe e ancora pianti, lacrime, sincera tenerezza.

 Il mio padre perdei. Qui stanco e mesto, Eneide, Anchise

Padre, m’abbandonasti; e pur tu solo
M’eri in tante gravose mie fortune

Quanto avea di conforto e di sostegno.
Ohimè! che indarno da sí gran perigli
Salvo ne ti rendesti. Ah, che fra tanti
Orrendi e miserabili infortuni,
(…)
Questo non era già, ch’era il maggiore!  [2]

 Il quarto libro: Didone

Il contenuto del quarto libro gode di ottima fama, sia grazie alla tradizione iconografica, sia grazie alla potenza espressiva dei versi. Stiamo parlando della morte di Didone, regina di Cartagine e luce tra i personaggi del poema. Agnosco veteris vestigia flammae (riconosco i segni della fiamma antica), questa la frase simbolo della profondità, del baratro tutto umano nel quale cadrà la donna. Ma non si parla  di un precipitare languido, bensì di un grido iracondo, di un suicidio che pare scolpito sul marmo. Con un paragone azzardato, Didone potrebbe essere accostata alla Madama Butterfly del Puccini, anche se non mancano eroine di tale garbo e forza nel repertorio culturale di ogni tempo o tradizione.

 Che parlo? O dove sono? E che furore dido_ae

è ’l tuo, Dido infelice? Iniquo fato,
misera, ti persegue.

(..) Questi è quel pio
che seco adduce i suoi patrii Penati,
e ’l vecchio padre a gli omeri s’impose.
Non potea farlo prendere e sbranarlo?
e gittarlo nel mare? ancider lui
con tutti i suoi? dilanïare il figlio,
e darlo in cibo al padre?  [3]

Anche qui non è difficile trovare riferimenti postumi, come Petrarca e la sacra canzone LXX. Tale la forza e l’incanto di un genio: continuare a nascere e morire nel futuro, forse nel presente, magari in un sogno poetico.

 Il libro sesto: morte, creazione, bellezza

Analisi più approfondita merita il libro VI, centro del poema in cui si trova la discesa nel regno dei morti e la presenza della Sibilla cumana. Ora, al di là dei vaticini e dei fantasmi che si posano sul cuore di Enea, bisogna sottolineare una parentesi, a mio dire, esaltante. Il poeta deceduto Museo porta di nuovo l’eroe dinanzi al padre che comincia a spiegare le ragioni della morte e della vita, della bellezza suprema.

 Primieramente il ciel, la terra e ’l mare,

l’aër, la luna, il sol, quanto è nascosto,
quanto appare e quant’è, muove, nudrisce
e regge un, che v’è dentro, o spirto o mente
o anima che sia de l’universo;
che sparsa per lo tutto e per le parti
di sí gran mole, di sé l’empie, e seco
si volge, si rimescola e s’unisce.  [4]

 Rivolgendosi poi alle anime dannate che aspettano premi o punizioni

 E quinci ancora

avvien che téma e speme e duolo e gioia
vivendo le conturba, e che rinchiuse
nel tenebroso carcere, e ne l’ombra
del mortal velo, a le bellezze eterne
non ergon gli occhi.  [5]

 Eneide, Thanatos

Virgilio ha espresso in un monologo, quello che solo Shakespeare riuscirà a cristallizzare. Dimentichiamo le esperienze critiche, le parafrasi e la filosofia pura. Lo spirito dell’universo, le bellezze eterne cosa possono divenire tra le mani di un poeta? Innocenza. L’innocenza del creare e dar corpo ad una leggenda, un corpo pietoso in cui galoppa l’amore, un amore non fisico, ma essenza di musica. D’altronde, la Letteratura ancora oggi s’impone come un suono in grado di far alzare il capo verso il cielo.

Silvia Tortiglione

[1] Virgilio, Eneide; Libro III

[2] Virgilio, Eneide; Libro III

[3] Virgilio, Eneide; Libro IV

[4] Virgilio, Eneide; Libro VI

[5] Virgilio, Eneide; Libro VI