San Francesco secondo Dante nel canto XI del Paradiso

Il San Francesco di Dante ha un preciso ruolo nella Chiesa e nella storia. Nella Legenda maior di Bonaventura da Bagnoregio  leggiamo un aneddoto circa un sogno di Papa Innocenzo III (scena raffigurata anche nel ciclo di affreschi di Giotto nella Basilica di Assisi). Il pontefice, che fu impegnato su due campi a contrastare sia un centro lassismo nei costumi del clero, sia il moltiplicarsi di movimenti ereticali (in particolar modo patari, catari e albigesi), avrebbe sognato la basilica del Laterano in rovina e Francesco e Domenico che l’avrebbero sorretta.

il San Francesco di Dante
Il sogno di Innocenzo III. Giotto (?)

Notevole è anche che Dante dedichi un’intera terzina a Gioacchino da Fiore (“il calavrese abate Giovacchino/di spirito profetico dotato” [1]), scelta alquanto audace in merito a una personalità discussa all’epoca tanto per la presunta validità delle sue profezie, tanto per il suo pauperismo radicale. Costui aveva profetato che la Chiesa nel pericolo dei tempi sarebbe stata sorretta da due personaggi (“unus hinc; alius inde”).

Gli ordini mendicanti (costituiti come deterrente al proliferare delle eresie) erano improvvisamente divenuti i protagonisti della vita della Chiesa, avevano monopolizzato i centri di produzione della cultura (nel Medioevo abbazie e università) e le diatribe teologiche e politiche, di cui gli ordini mendicanti erano protagonisti, hanno costituito quella palestra culturale in cui Dante e gli intellettuali fiorentini della sua generazione si erano formati.

Erano infatti presenti a Firenze i Domenicani a Santa Maria Novella, i Francescani a Santa Croce e gli Agostiniani in Santo Spirito; e in quella formazione (propria del medioevo) in cui teologia, scienza, etica e politica si compenetravano indistricabilmente Dante ha potuto costruire la sua cosmologia sulle orme domenicane della filosofia scolastica: il tema del viaggio verso Dio nel filone mistico d’impronta francescana e una concezione storiografica provvidenzialistica di derivazione agostiniana.

Si capisce, dunque, come il San Francesco di Dante (insieme con Domenico) non sia solo un punto di una sequenza di beati incontrati nel viaggio ultraterreno, ma come abbia un preciso ruolo nella Chiesa e nella Storia. Dice Dante che la Provvidenzadue principi ordinò in suo favore, / che quinci e quindi li fosser per guida“[2].

Il San Francesco di Dante e il suo ruolo provvidenziale nella storia

Il San Francesco di Dante
La rinuncia agli averi. Giotto.

Il San Francesco di Dante, dunque, congiuntamente a Domenico ha un ruolo provvidenziale: è chiamato a ricostruire la Chiesa e di conseguenza a raddrizzare il corso della storia. Non bisogna mai sottovalutare che tutto l’impianto tematico della Commedia è sorretto da una concezione provvidenzialistica della storia.

Dante aveva indicato che l’Impero romano fosse costruito allo scopo di garantire quella pax che sola poteva predisporre il mondo alla venuta di Cristo [3] e dare forza alle due istituzioni universali volute da Dio (Chiesa e Impero) e minate ora dal particolarismo politico e dalla corruzione del clero.

Ancora nel De Monarchia, Dante aveva mostrato come la Chiesa, qualora rimanesse legata “a temporalibus” (cioè legata alle preoccupazioni mondane) fosse impossibilitata a svolgere il suo ruolo di indirizzare alla felicità eterna; ed ecco che il pauperismo di Francesco diventa completamente funzionale al disegno divino, e non si ammanta di velleità rivoluzionarie ma è tutto impostato a difesa della Chiesa.

I due ordini dovevano costituire un solo agire salvifico nella storia, ed è così che Dante rende i canti XI e XII  perfettamente simmetrici (con un’identica distribuzione delle terzine) facendo pronunciare la lode a San Francesco e l’invettiva del proprio ordine al “sapiente” domenicano (Tommaso), e specularmente la lode a Domenico e l’invettiva al proprio ordine a un “sapiente” francescano (Bonaventura). Nell’invettiva di Bonaventura c’è l’amarezza di Dante per la divisione tra spirituali e conventuali “non fia da Casal nè d’Aquasparta […] ch’uno la fugge e altro la coarta“[4] in riferimento al lassismo di Matteo d’Acquasparta e il rigorismo di Ubertino da Casale.

Dal sermo humilis ad un sublime panegirico

Il San Francesco di Dante
Innocenzo III approva la regola. Giotto (?)

Il San Francesco di Dante è stato studiato più di tutti dal critico Auerbach. Costui aveva parlato di sermo humilis agostiniano in riferimento al realismo dantesco, poiché la stessa lingua dell’umile del Vangelo “non ad oratores sed ad piscatores” doveva essere impiegata per il poema sacro “non ad speculum sed ad opus“.

L’estrema umiltà di Francesco ne costituisce la sua straordinaria magnanimità. Ne viene fuori non un ritratto caro all’aneddotica popolare, ma un panegirico in una lingua sublime carica di inarcature, inversioni classicheggianti, grecismi e latinismi. Non il Santo che parla agli uccelli e che rende il lupo mansueto; in Dante, Francesco entra prepotentemente nella storia, nel progetto divino e “mantener la barca di Pietro in alto mar per dritto segno“. [5]

  Intra Tupino e l’acqua che discende
del colle eletto dal beato Ubaldo,
fertile costa d’alto monte pende,
onde Perugia sente freddo e caldo
da Porta Sole; e di rietro le piange
per grave giogo Nocera con Gualdo.
Di questa costa, là dov’ ella frange
più sua rattezza, nacque al mondo un sole,
come fa questo talvolta di Gange.
Però chi d’esso loco fa parole,
non dica Ascesi, ché direbbe corto,
ma Orïente, se proprio dir vuole.
Non era ancor molto lontan da l’orto,
ch’el cominciò a far sentir la terra
de la sua gran virtute alcun conforto;
ché per tal donna, giovinetto, in guerra
del padre corse, a cui, come a la morte,
la porta del piacer nessun diserra;
e dinanzi a la sua spirital corte
et coram patre le si fece unito;
poscia di dì in dì l’amò più forte.
Questa, privata del primo marito,
millecent’ anni e più dispetta e scura
fino a costui si stette sanza invito;
né valse udir che la trovò sicura
con Amiclate, al suon de la sua voce,
colui ch’a tutto ’l mondo fé paura;
né valse esser costante né feroce,
sì che, dove Maria rimase giuso,
ella con Cristo pianse in su la croce
Ma perch’ io non proceda troppo chiuso,
Francesco e Povertà per questi amanti
prendi oramai nel mio parlar diffuso.
La lor concordia e i lor lieti sembianti,
amore e maraviglia e dolce sguardo
facieno esser cagion di pensier santi;
tanto che ’l venerabile Bernardo
si scalzò prima, e dietro a tanta pace
corse e, correndo, li parve esser tardo.
Oh ignota ricchezza! oh ben ferace!
Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro
dietro a lo sposo, sì la sposa piace.
Indi sen va quel padre e quel maestro
con la sua donna e con quella famiglia
che già legava l’umile capestro .
Né li gravò viltà di cuor le ciglia
per esser fi’ di Pietro Bernardone,
né per parer dispetto a maraviglia;
ma regalmente sua dura intenzione
ad Innocenzio aperse, e da lui ebbe
primo sigillo a sua religïone.
Poi che la gente poverella crebbe
dietro a costui, la cui mirabil vita
meglio in gloria del ciel si canterebbe,
di seconda corona redimita
fu per Onorio da l’Etterno Spiro
la santa voglia d’esto archimandrita.
E poi che, per la sete del martiro,
ne la presenza del Soldan superba
predicò Cristo e li altri che ’l seguiro,
e per trovare a conversione acerba
troppo la gente e per non stare indarno,
redissi al frutto de l’italica erba,
nel crudo sasso intra Tevero e Arno
da Cristo prese l’ultimo sigillo,
che le sue membra due anni portarno.
Quando a colui ch’a tanto ben sortillo
piacque di trarlo suso a la mercede
ch’el meritò nel suo farsi pusillo,
a’ frati suoi, sì com’ a giuste rede,
raccomandò la donna sua più cara,
e comandò che l’amassero a fede;
e del suo grembo l’anima preclara
mover si volle, tornando al suo regno,
e al suo corpo non volle altra bara.

Luca Di Lello

[1] Dante, Paradiso XII 141-143.

[2] Dante, Paradiso XI 34-36.

[3] Dante, Inferno II 13-30.
[4]Dante, Paradiso XII, 124-126.

[5]Dante, Paradiso XI 119-120.

E. Auerbach, Studi su Dante, Feltrinelli, Milano, 1993.
A cura di Umberto Bosco e Giovanni Reggio, Divina Commedia, Le Monnier Scuola 2013.