Park Ki Pyung e la silente lotta dell’esistenza

L’intensa emotività che traspare dall’immobilità sospesa

Attimi di stasi, pause, rarefazioni. In Occidente la cultura orientale è conosciuta per la sua carica di silenzio e profondità, una metafora di meditazione che sfocia in spunti di dettagli irrisolti. Il giovane Park Ki Pyung trasporta all’interno dei suoi lavori tutto il bagaglio della terra d’Oriente, in bilico tra solennità e turbamento.

L’emotività è l’arma utilizzata dal giovane artista coreano per insinuarsi nel mondo dell’arte. Nelle sue opere traspare una sopsesa immobilità che strania. Espressivo, minimale, elegante, lo scultore non cede alla tentazione dell’eccesso per enfatizzare un tema tanto riproposto nell’arte: i contrasti dell’animo umano.

Tra pesantezza e vacuità

Le materie utilizzate sono quelle grezze e pesanti, conosciute per il loro essere adatte alla costruzione architettonica e meravigliano nell’impiego leggero che ne fa l’artista. Imbattendosi nelle sue sculture si va incontro all’acciaio, il cemento e la resina elementi trattati con estrema eleganza. Ki Pyung attribuisce una sottigliezza delicata e struggentealle sue opere, opposta alla imponenza della loro sostanza.

Park Ki Pyung
Park Ki Pyung 01

Le caratteristiche dei materiali concreti prendono forme effimere, metafore dei disequilibri emotivi. Le emozioni trasmesse sono i sentimenti che trapassano l’esistenza umana: l’incertezza, l’erosione interiore, la sensazione del soffocamento, la paralisi.

“Come il mio passato sta influenzando il mio futuro? Che tipo di persona sto diventando?”

Queste sono le domande alla base dell’ispirazione dell’artista e che continuano a spingere la ricerca di Park Ki Pyung. Il peso di queste emozioni, le indagini consce sull’inconscio, si manifestano con le rotture all’interno delle figure, lasciano un guscio vuoto o svuotato.

Oriente e Occidente

Nei secoli gli scambi tra Oriente e Occidente sono stati reciproci permettendo a Park Ki Pyung di essere influenzato dai tanti artisti che hanno fatto la storia della scultura.
Guardando con occhi occidentali i suoi lavori, è facile richiamare alla mente opere che spaziano dal periodo classico ai giorni nostri. Inevitabile non pensare alle Ombre della Sera dell’epoca Etrusca, agli Schiavi di Michelangelo, alle sculture in bronzo di Alberto Giacometti o artisti contemporanei come Paola Grizi o Aron Demetz.

È probabile che Park Ki Pyung sia rimasto legato alla sua cultura: forte sarà stata la lezione dei grandi maestri surrealisti della sua terra, famosi per la loro carica riflessiva e contemplativa, come Haejin Lee e Lee Il-Ho di cui non si può non ricordare l’affascinante parco Baemigumi dove furono girate anche scene del film “Time” di Kim Ki-Duk.

Gli urli silenti di Park Ki Pyung

Le opere dello scultore sono quasi esclusivamente a grandezza naturale. Le dimensioni delle figure non sorprendono lo spettatore, lasciano un senso di smarrimento. Le opere si stagliano senza prepotenza, rimangono statiche, cariche della loro grazia. Il desiderio dell’autore è di creare una comunicazione visiva diretta della lotta con se stessi e con ciò che li circonda. Le figure sono spezzate, cave, rotte, incomplete, raccontano la condizione dell’estrema malinconia. Sono anime consumate e silenti nello spazio.

L’artista sottolinea che “queste forme sono un modo per descrivere le condizioni di vuoto, evidenziate dall’eliminazione delle caratteristiche che distinguono le persone l’une dalle altre.”

Cosa significa essere umani?

Le sue serie più importanti rivelano una forte propensione nel volersi addentrare con determinazione nel disagio causato dal concetto di identità e conformità. Attraverso una suggestione di immobilità e rarefazione riesce a ricondurre l’osservatore dinanzi all’ansia della realtà, e al dilemma di cosa significa essere umani.

Empty Room

Il lavoro Empty Room è un serie formata da opere cave in resina e acciaio. Il pensiero e la sofferenza di queste figure sono celati dallo sguardo rivolto verso il basso, dietro il silenzio e la fermezza. La posizione verticale a capo chino, riconduce a un linguaggio di movenze vacue, in segno di profonda resa e rassegnazione.

Amphitheater

Amphitheater porta in scena la lotta: le sculture sono in gruppi di due, ancorate fra loro, deformate in una presa tra l’abbraccio e la fuga. Park Ki Pyung mette in scena un contrasto, metafora del continuo conflitto interiore con se stessi.

Per infondere maggiore intensità alla battaglia, Ki Pyung non mostra i particolari facciali delle figure, cancella l’esclusività. I corpi si rendono specchio di chi osserva e incarnano il senso della perdita di sè, smarrimento provocato dalla durezza e violenza che l’individuo si autoinduce.

A oggi Ki Pyung è stabile nella sua città Seul, dove vive e continua la sua ricerca sull’interiorità e l’assenza di sè.

Michela Sellitto