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Bioremediation: cos’è e come funziona

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La natura chiama… la natura risponde

Bioremediation è un termine molto utilizzato negli ultimi anni, nella ricerca di soluzioni per contrastare l’inquinamento. Le idee migliori vengono dalla natura, e senz’altro i batteri sono l’esempio perfetto. Ci sono però altri microrganismi, anch’essi importanti, che partecipano a questi processi di “pulizia”, di rimedio, a danni causati spesso dall’uomo. Le sostanze che vengono immesse nell’ambiente permangono, causando danni che spesso non sono limitati soltanto all’organismo che viene a contatto con la sostanza, ma si trascinano lungo la catena alimentare come nel caso della biomagnificazione.

Bioremediation, bioaugmentation, biostimulation

La contaminazione dei suoli, delle acque, dell’aria e in generale dell’ambiente espone l’uomo ad un costante pericolo per la salute. Per questo motivo è necessario porvi rimedio, e una possibile soluzione è utilizzare una delle tecnologie offerte dalla natura.

Alcune sostanze presenti in natura sono di supporto e nutrimento per i microrganismi. Tra queste, anche alcune sostanze sono prodotte dall’inquinamento, che i microrganismi utilizzano come parte del proprio metabolismo.

Quindi, per bioremediation si intende l’utilizzo di microrganismi per la degradazione o la rimozione di contaminanti. Spesso questo processo avviene naturalmente, ma è possibile riprodurlo artificialmente.

Per migliorare le condizioni di bioremediation possono essere aggiunte sostanze che migliorano le condizioni di azione di questi microrganismi, e allora si parla di biostimulation; oppure, se vengono aggiunti dei microrganismi in grado di degradare determinate sostanze, si parla di bioaugmentation.

Questi processi sono considerati complementari affinché ci sia la completa rimozione dei contaminanti.

Batteri e Archea: resistenza e adattamento

Tra i microrganismi di elezione che partecipano a questo processo, troviamo sicuramente al primo posto i batteri. I batteri sono variamente diffusi in natura, occupano nicchie specifiche tra le più disparate. Sono presenti in habitat difficili da occupare, in condizioni di temperatura, pH, salinità, accessibili a pochi organismi.

Insieme ai batteri troviamo gli Archea, che costituiscono insieme ai batteri i Procarioti, e che dimostrano una sorprendente capacità di bioremediation. I Procarioti sono organismi viventi, caratterizzati dall’assenza di un nucleo, ovvero una struttura definita nella cellula all’interno della quale sono contenute le informazioni genetiche.

In alcuni casi si trovano dei veri e propri consorzi di organismi, che partecipano insieme alla rimozione dei contaminanti. Gli Archea, grazie alle loro particolari caratteristiche che li differenziano dai batteri, sono molto resistenti a condizioni avverse in cui non resisterebbe altro organismo.

Per queste loro capacità alcuni fanno parte degli estremofili, organismi capaci di resistere in condizioni estreme, come il Sulfolobus solfataricus; quest’ultimo è un termoacidofilo, ovvero vive in ambienti in cui le temperature sono di circa 75°C e il pH è molto acido. Un esempio di habitat di questo tipo sono sono i geyser.

Queste caratteristiche sono fondamentali per il trattamento degli inquinanti. Ad esempio i reflui industriali sono caratterizzati da ipersalinità, alte temperature, pH acido o alcalino. Utilizzare un organismo che possiede già di per sé la capacità di resistere in questi ambienti ed è anche capace di eliminare sostanze dannose, è fondamentale per raggiungere lo scopo della bioremediation.

Esempi di bioremediation

Tra i tantissimi esempi di questi straordinari microrganismi, troviamo il Methanococcus maripaludis, un archeobatterio anaerobio, capace cioè di vivere in assenza di ossigeno. La sua peculiarità è quella di utilizzare l’anidride carbonica e l’idrogeno per produrre metano.

L’organismo vive nei sedimenti marini, dai quali è stato isolato. La sua abilità di utilizzare l’anidride carbonica come fonte di energia permetterebbe di ridurre le emissioni di anidride carbonica, ottenendo poi una fonte di energia utilizzabile. Non è patogeno, e questo permette il suo utilizzo in modo sicuro nel campo della ricerca.

Altri invece, sono capaci di rimuovere contaminanti come il mercurio, il cadmio, rame, zinco, cadmio, petrolio, ma anche Idrocarburi Policiclici Aromatici (IPA), diffusi a causa dell’inquinamento e riconosciuti come cancerogeni.

Utilizzando questi composti come intermedi dei propri cicli riproduttivi, rilasciano composti meno dannosi nell’ambiente. Troviamo inoltre il già citato Sulfolobus solfataricus, capace di degradare composti aromatici dannosi.

Molti di questi organismi sono inoltre facilmente manipolabili geneticamente, di conseguenza potrebbero essere utilizzati in questo campo, inserendovi caratteristiche che potrebbero renderli abili a degradare sostanze cui non sono mai state esposte; insomma delle vere e proprie macchine di pulizia ambientali.

Prospettive future sulla bioremediation

I problemi causati dall’inquinamento, sia all’ambiente che all’uomo, pongono in primo piano la ricerca di una soluzione. Per quanto in teoria l’impiego di microrganismi potrebbe essere la soluzione ideale, per la versatilità e l’ampia diffusione di questi, i problemi sono tanti.

Ciò non toglie che con l’avanzare della ricerca, questi problemi possano passare in secondo piano, per garantire un futuro migliore al nostro maltrattato pianeta.

Carmela Consiglio

Sitografia

https://www.hindawi.com/journals/archaea/2018/3194108/

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23212672

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC4902934/

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Redazione

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