Postcolonialismo: per la decolonizzazione della mente

Negli ultimi vent’anni, le scienze sociali hanno visto l’affermazione degli approcci cosiddetti poststrutturalisti. Come il nome stesso suggerisce, essi mettono in dubbio le grandi teorie tradizionali accusandole di essere ideologicamente viziate. Ciò significa che, ai loro occhi, esse hanno l’unico scopo di riprodurre e giustificare le relazioni di potere del mondo in cui viviamo. Quanto appena detto si applica alla perfezione ad una delle tesi poststrutturaliste più conosciute e controverse: il postcolonialismo.

L’ambizioso scopo dei suoi sostenitori è quello di portare alla decolonizzazione intellettuale, dopo quella politica e culturale avvenuta tra gli anni ’50 e ’70 del secolo scorso.

Dal colonialismo al postcolonialismo

Il colonialismo e l’imperialismo sono stati due tra gli eventi più importanti della storia umana. Essi hanno portato, nel giro di quattro secoli, praticamente tutto il mondo conosciuto sotto il dominio degli Europei. Anche i Paesi che riuscirono a sottrarsi ad una sottomissione politica formale, infatti, come la Cina o il Giappone, dovettero comunque sottostare per lungo tempo all’espansionismo economico-commerciale dell’Europa.

Gli imperi coloniali raggiunsero il proprio culmine nella prima metà del Novecento:basti pensare, ad esempio, che alla vigilia della prima guerra mondiale la Gran Bretagna dominava un quarto della popolazione del pianeta. Sorprendentemente, però, a dispetto delle centinaia di anni necessarie per il loro consolidamento, il crollo fu estremamente rapido. Per la verità, rivolte vittoriose contro gli Europei avevano già avuto luogo: pensiamo alla rivoluzione statunitense del 1776-1783 oppure alla liberazione del Sudamerica, circa quarant’anni dopo.

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Mappa degli imperi coloniali alla vigilia della prima guerra mondiale

Quando si parla di decolonizzazione, tuttavia, si intende per antonomasia il periodo successivo alla fine del secondo conflitto mondiale. Esso vide, infatti, la fine pressoché totale degli imperi coloniali europei, che nel 1981 avevano praticamente cessato di esistere. Ultimo atto di questo processo di liberazione globale è, solitamente, considerato la fine dell’apartheid in Sudafrica, nei primi anni novanta. Eppure, secondo molti ricercatori sociali, la fine del colonialismo formale non ha significato la totale liberazione dal giogo occidentale. Proprio di questo si occupa la ricerca del postcolonialismo.

Le strategie di dominazione coloniale

Come poté un piccolo gruppo di Paesi europei controllare l’intero pianeta? Le strategie di sottomissione da essi utilizzate sono state ampiamente studiate nel corso del tempo. La prima, e più evidente, è la dominazione politica, derivata dall’indiscutibile superiorità militare dei conquistatori. Per mantenere un impero, però, non basta utilizzare la forza bruta: bisogna creare delle reti di controllo ampie, durature ed efficienti. Per farlo, una delle vie più praticate era quella di cooptare le élite locali, assimilandole nella gerarchia amministrativa. Non bisogna dimenticare, poi, la sottomissione economica. Essa veniva realizzata in una serie di modi: oltre al saccheggio diretto di ricchezze e risorse naturali, ricordiamo anche i trasferimenti iniqui di profitti e denaro.

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Joseph Rudyard Kipling

C’è, tuttavia, un’altra dimensione, che costituisce l’oggetto di analisi specifico del postcolonialismo. Si tratta della sottomissione culturale e intellettuale: l’imposizione, da parte dei colonizzatori, di ideologie che giustificassero il loro dominio. Esse esaltavano, quasi sempre, una supposta superiorità dell’Occidente nei confronti delle popolazioni coloniali. Queste venivano rappresentate come barbare e arretrate, ma anche semplicemente come diverse, ad esempio esotiche e sensuali.

È bene precisare che tali discorsi non erano rivolti solo ai sottomessi, ma anche alla stessa opinione pubblica occidentale. Le pratiche atroci del colonialismo trovavano, infatti, come è del resto intuibile, forti resistenze anche nelle stesse società dei governi che le attuavano. Era, quindi, indispensabile che esso venisse giustificato anche ai loro occhi. Pensiamo, ad esempio, alla poesia del premio Nobel Kipling secondo la quale l’uomo bianco deve assumersi “il fardello” di esportare la civiltà. Concetti analoghi la “mission civilisatrice” francese o il “destino manifesto” statunitense.

Il colonialismo intellettuale e il postcolonialismo

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Edward Said nel 1999 ( foto Akg-images/ Bruni Meya/East News)

La dimensione intellettuale del dominio coloniale è quella meno ricercata in assoluto ma, sorprendentemente, si può anche dire che sia la più duratura. Ed è proprio contro di essa che si batte il postcolonialismo: i suoi discorsi, dicono i suoi autori, continuano a tutt’oggi. Basti pensare a come, per loro, la produzione intellettuale dell’Occidente sia ancora dominata dalla netta distinzione tra se stesso (the West) e il resto del mondo (the rest).

La tendenza a classificare gli altri popoli secondo categorie generaliste non è mai venuta meno. Ad esempio, Edward Said, uno scrittore anglo-palestinese, nel suo saggio Orientalism (1978) denunciava come la rappresentazione dell’Oriente da parte dell’Occidente e, in particolare, dell’Europa si basasse da sempre sull’idea di un mondo barbaro, autocratico e arretrato. Ciò a dispetto, soprattutto, dell’inesistenza di un mondo orientale unico, come dimostrano le enormi differenze, ad esempio, tra la civiltà arabo-islamica e quella indiana.

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Frontespizio originale di Robinson Crusoe

I discorsi intellettuali denunciati dal postcolonialismo, però, non sono soltanto di stampo razzista ed egemonico. Se ne possono trovare tracce in qualunque rappresentazione dei popoli ex coloniali come diversi dall’Occidente. Anche quegli approcci animati da intenzioni umanitarie, che vorrebbero promuovere aiuti e cooperazione, spesso sfociano nel paternalismo.

In ciò, continuano, consciamente o meno, a riproporre il mito imperialista del “bon sauvage”, ovvero del “barbaro” che, vivendo in una condizione di arretratezza, è più felice, ingenuo e puro dell’uomo occidentale oppresso dalle leggi della civiltà e che, dunque, può essere educato ai nostri valori senza sviluppare le nostre stesse perversioni.

A qualcuno forse verranno in mente Robinson Crusoe e Venerdì: il romanzo è animato proprio dal principio appena descritto, lo stesso che, per il postcolonialismo, continua oggi in slogan come “aiutiamoli ad aiutare se stessi”.

Critiche al postcolonialismo

Il postcolonialismo ha numerosi detrattori. Tra le critiche che gli vengono mosse, possiamo ricordarne almeno due tipi. La prima critica è quella di chi accusa i suoi esponenti di fare uso delle stesse generalizzazioni che rimproverano ai loro avversari. Nel suddetto saggio di Edward Said, ad esempio, l’Occidente viene ridotto alla caricatura di se stesso, arrogante, facilone e imperialista, quando nella realtà, come abbiamo ricordato, numerose voci di dissenso contro il colonialismo si erano levate anche dalle sue stesse società.

La seconda contestazione, invece, è forse la più incisiva nella nostra epoca di crisi dei valori. Per comprenderla, bisogna considerare che il postcolonialismo spesso non si limita a criticare i discorsi suprematisti dell’Occidente, ma l’imposizione di tutta la sua produzione intellettuale. Siccome, però, all’interno di quest’ultima rientrano anche teorie, come la democrazia liberale, che per noi dovrebbero essere universalmente considerate “buone”, per i suoi detrattori il postcolonialismo comporta il rischio di aprire la strada al relativismo più totale.

Francesco Robustelli

Bibliografia

Painter, Jeffrey, Geografia Politica, ed.SAGE Publications of London, 2009, it.UTET, 2011

Jedlowski, Il mondo in questione, ed.Carocci, 2009

Jackson, Sørensen, Relazioni internazionali, 2013, it.EGEA, 2014

Sitografia

la-philosophie.com

Fonti media

www.nobelprize.org