Annunciato qualche anno fa, Twin Peaks 3 – The Return ha toccato il cuore di tutti i fan storici della serie. Nonostante qualche intoppo, abbiamo potuto guardare in tv un prodotto realizzato interamente dai suoi creatori, David Lynch e Mark Frost. La serie di diciotto episodi è stata ben presto targata come capolavoro che, al pari della serie di ventisei anni fa, ha riscritto le regole del piccolo schermo e ha regalato emozioni uniche, sebbene le reti televisive non abbiano registrato ascolti da record. Ma al di là dei cuori palpitanti dei fan, delle suggestioni provocate ai neofiti e della reverenza della critica, c’è qualcos’altro d’aggiungere su questo tanto agognato ritorno?
Si è tanto scritto sulla serie, in itinere e dopo la conclusione, che non vale la pena proporre l’ennesima recensione. Ciò che vorrei fare è piuttosto esaminare Twin Peaks 3 utilizzando una specifica chiave interpretativa. La fase più recente della carriera cinematografica di Lynch permea la serie e forse, per chi conosce bene la produzione del regista, l’interpretazione che suggerirò non sembrerà dire qualcosa di nuovo.
Film come Strade Perdute, Mulholland Drive e Inland Empire, una sorta di trilogia “psicologica” che ha nel lontano Eraserhead il suo prologo, cercano indubbiamente un modo originale, atipico, a tratti pioneristico di fare cinema, non senza critiche al modello hollywoodiano.
In questo video Lynch esprime con belle parole la sua visione, che si scontrerà sempre con il tentativo di tradurre in parole le sensazioni provate davanti allo schermo. L’esempio migliore è forse proprio Mulholland Drive: la dimensione onirica della protagonista Betty finisce per scontrarsi con la dura realtà della sua controparte cosciente, Diane, in un vortice orrorifico e suggestivo che culmina nella scena del teatro (“Non c’è l’orchestra. È tutto registrato”).
Gli elogi fatti a Twin Peaks 3 sottolineano ancora una volta l’originalità e la capacità di uscire dagli schemi. Ciò che vorrei sottolineare qui, però, è che ritengo sia avvenuto una sorta di slittamento: il “modello Lynch” è ormai carta conosciuta, si è chiuso in un circolo di prevedibile imprevedibilità, dove lo spettatore sa di potersi aspettare un’opera criptico-umoristica, che lo terrà occupato in svariati tentativi ermeneutici.
Tralasciando dunque ciò che era ovvio aspettarsi, esaminiamo un altro percorso che attraversa tutto The Return, ovvero: Lynch e Frost hanno partorito un’opera che ha anche lo scopo di smontare pezzo per pezzo il loro cult degli anni ’90 e, con esso, tutta la produzione di serie tv che ne è derivata. L’operazione sembra concentrarsi soprattutto sulla pars destruens, sconfessando qualsiasi regola di buona scrittura e coerenza narrativa oggi imperante. E ciò, rispetto alle opere precedenti, con molti meno riguardi verso la fruibilità dell’opera e del rapporto artista-pubblico.
Non a caso il cast storico si porta addosso tutto il peso degli anni passati, prendendo parte in scene goffe, pesanti o autoreferenziali. Paradossalmente, in tutta la costruzione narrativa, sono proprio loro ad avere lo spazio meno rilevante, al pari della stessa città di Twin Peaks, con le uniche eccezioni di Truman e Hawk. Vedere di nuovo le gag di Andy e Lucy, le pubblicità invettive del dr. Jacoby o Bobby bullo redento nel compito della sicurezza pubblica sono, ad una lettura superficiale, chicche per i fan, ma sembrano in realtà voler intendere che i vecchi tempi sono ormai trascorsi e rimanere avvinghiati a personaggi e idee di una generazione fa non è la strada migliore.
Tutto viene diluito in un montaggio che smorza di continuo il ritmo, adiuvato in ciò da tempi scenici a volte gratuitamente esasperanti. Ogni episodio centellina i progressi narrativi delle numerosissime storyline, quasi a voler acconsentire ad un’anarchia interpretativa dove lo spettatore è libero di scegliere a quali informazioni dare maggior peso; non solo, il rigore e l’efficacia dell’architettura narrativa, generalmente uno degli elementi cruciali che fa di una serie un prodotto di successo, sono qui messi in secondo piano come un’ossessione da cui liberarsi: prova ne sia che più di un filone narrativo è inconcluso o inconcludente.
Infatti non c’è più il delicato gioco di equilibri che ruotava attorno al mistero di Laura Palmer, ma un intreccio piuttosto scialbo che si dirama in più direzioni senza un centro focale e si riduce ad una molto prevedibile resa dei conti, dove le varie parti fanno tutto tranne che suscitare stupore. La dialettica tra Cooper e il suo doppelgänger, succosa carta da giocare narrativamente, è a malapena presa in considerazione, facendo anche scemare in termini semplicistici la raffinatezza del rapporto tra bene e male, realtà e apparenza costruito nelle serie precedenti, come anche in Fuoco cammina con me.
In parallelo con il finale di Twin Peaks 3, possiamo concludere questa breve analisi. Dopo una nostalgica rimpatriata nel commissariato di Twin Peaks e la sconfitta di BOB, Cooper deve partire per un nuovo viaggio in cui si troverà, insieme a Laura Palmer, in un’altra dimensione e con una nuova identità. I piani temporali vengono sfasati e le parole di MIKE (“È il futuro? O il passato?”) sembrano acquisire senso: la linea del tempo è solo una costruzione che il narratore può piegare al suo capriccio rimescolando eventi e personaggi in modo del tutto inedito. Proprio quando Dale sembra sul punto di risolvere il caso, e lo spettatore con lui, si sprofonda nel baratro dell’incomprensibile, sancito dall’urlo finale di Laura Palmer. Piuttosto che privilegiare sempre la coerenza narrativa, si fa un elogio del mistero e del non detto: non a caso, i titoli di coda scorrono sull’inquadratura di Laura che sussurra nell’orecchio di Dale qualcosa che non è mai stato svelato e mai lo sarà.
Il punto è infatti un altro: invece di gridare al capolavoro e compiacersi delle proprie interpretazioni di questo ammasso di eventi e personaggi, c’è da capire che Twin Peaks 3 costituisce solo l’inizio, un prototipo tutt’altro che impeccabile, come abbiamo visto, nonché un preludio a ciò che potrebbe essere esplorato in futuro. Il messaggio cruciale è di cercare direzioni sempre nuove: dopo aver partorito un capolavoro che tutt’ora detta le regole del format serie tv, Lynch e Frost sembrano voler “mandare in pensione” il loro stesso modello, dopo un utilizzo fin troppo pedissequo. Ed è una lezione che viene impartita a costo di rendere la serie un’opera difficile da seguire fino alla fine, a tratti noiosa e insoddisfacente per i motivi suddetti; nonché a costo di mettere in dubbio l’intesa tra artista e spettatore, visto che il messaggio che si vuole mandare si può desumere solo al termine di una faticosa visione, i cui contenuti sono completamente scavalcati dal messaggio stesso.
Giovanni Di Rienzo
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