Processo ad una strega: lo spettacolo di Annamaria Russo

L’ingiustizia. Il sensazione maggiormente emersa dal processo a Bianca tenutosi  sabato 24 giugno nel cortile del Maschio Angioino di Napoli è stata quella dell’abominio dell’ingiustizia. Il “Processo ad una strega”, scritto e diretto da Annamaria Russo, è tratto da veri atti risalenti al breve periodo inquisitorio che sfiorò anche Napoli.

L’abilità di Marianita Carfora, nel ruolo di Bianca, la presunta strega inquisita in “Processo ad una strega”, è stata quella di riuscire trasmettere un intenso sentimento di dolore, paura, terrore violenti per un destino conosciuto ed ineluttabile.

Il volgo è ignorante. E l’ignoranza è un mostro che come tale fa paura ma che facilmente si spaventa. Perché non chiede, non domanda, neanche vuole sapere troppo. Perciò tollera il dogma. Perciò nel dubbio irrisolto si accoccola e trova pace. E su queste circostanze, in pace la chiesa ha costruito un impero. Il popolo niente sa e niente vuole sapere, basta procurargli qualche capro espiatorio sul quale sfogarsi ed innalzargli su un altare qualcosa da venerare; per il resto, si può procedere indisturbati.

L’indagine sociologica della Napoli di fine Seicento ci è utile alla comprensione delle dinamiche della cosiddetta “caccia alle streghe”.

Un popolo spaventato dal diverso, da chi comprende che con la conoscenza può fare qualcosa di nuovo, come salvare i moribondi o guarire da morbi apparentemente incurabili. Allora subito si grida al demonio, tirando così in ballo la Chiesa. Magari le si riserva una percentuale di lucro, ed ecco servita “l’inquisizione”.

Bianca
Processo a Bianca

Un popolo che, fra l’altro, aveva trovato il modo di farsi un’interna guerra fredda  mandando il nemico o la moglie del nemico a morte con la scusa dell’accoppiamento con Satana.

In fin dei conti, non è che a madre Chiesa (buona, giusta, e misericordiosa), piacessero più di tanto queste donne che si approssimavano ad una certo grado di informazione e quindi di cultura. Erano pericolose.

E così, fra cause e conseguenze, quello di Bianca fu solo uno dei tanti omicidi autorizzati dall’altare sacro.

Bianca scappa, corre, cerca aiuto. Ma nessuno, nessuno le tende la mano. Chi ci prova, viene facilmente soggiogato. Esiste l’avvocato dell’accusa, ma non quello della difesa. Bianca non ha mezzi per tutelarsi, né fisicamente, né, anche se di arguta intelligenza e di lingua lunga, verbalmente, in quanto neanche viene ascoltata.

Bianca non può difendersi, perché non piace al popolo. E contro la folla, si sa, c’è poco da fare. Si sente nella voce, nel lamento, nelle lacrime della ragazza, lo strazio di chi è in gabbia e cerca di spiegarsi sapendo che sta parlando come senza audio, ma ci prova;  combatte, si batte, e l’istinto di sopravvivenza, anche quello viene indicato come figlio del diavolo, quando in realtà non esiste niente di più umano che l’attaccamento alla vita.

Fra urla e strilli afflitti in un vernacolo di circa tre secoli fa, la Carfora  riesce comunque a rendere comprensibile ogni sua battuta, che parte dall’animo e arriva al pubblico, trascinandolo con veemenza nella tragedia di Bianca.

E anche se, storiograficamente, Bianca e tutte quelle come lei hanno perso, e anche se riportare alla luce le conseguenze della disinformazione e soprattutto della malignità umana a poco serve, ciò che non può fare da monito è quantomeno testimonianza.

Bianca era una donna forte. Una donna che lottava. Una donna vestita di dignità sotto le sue carni straziate, una donna che aveva sopportato in silenzio la tortura ma che non riusciva a tollerare di dover inventare una colpa che non le apparteneva.

Ed era una bella donna che aveva amato. Un uomo sposato, e non con lei. E questo fu probabilmente il suo più grande misfatto. La più grande paura delle sue compaesane: che potesse sedurre, “affatturare”, anche i loro uomini; l’unico rimedio era mandarla al rogo. Lo aveva voluto soprattutto la moglie di Gennaro, l’amante di Bianca; vendetta e gelosia tirano in ballo il sacro nascondendosi dietro la scusa de profano.

Fino alla fine Bianca ci ha provato. Ma di fronte all’idea di essere rispedita nelle celle, ha ceduto.

bianca
Bianca

Nun o chiammat o voia, nun o chiammat. V ric tutt cos, v cont tutt cos.”

E allora Bianca ha mentito, ha raccontato cose che non esistevano, pur di non tornarci nella prigione delle streghe; che da la non si esce. Non si esce vive se non per andare a morire.

In un turbine di avvilimento e follia, si è rassegnata all’idea della morte preferendola al tormento della tortura.

Ma non ha additato altre figlie di Lucifero, come le veniva chiesto di fare. Avrebbe potuto portare nel fuoco con lei la soddisfazione di una vendetta; ma no. Bianca è rimasta con l’animo pulito di chi sa praticare l’amore puro.

Una drammaturgia toccante, che concentra accenti di forte commozione e poesia soprattutto nell’arringa di autodifesa di Bianca, ha giovato di uno spazio abbastanza ampio, quale appunto il cortile del castello, per uno spettacolo dinamico, articolatosi fra scale, processioni, balconi e croci,  e di un contesto storico e suggestivo, esposto al cielo aperto.

Complici la musica viva suonata dall’orchestra “Ensemble Musica Reservata”, nonché la verosimile costumeria di Annalisa Ciaramella, nel complesso questi novanta minuti di spettacolo sono stati un piacevole esperimento che si ripeterà a settembre all’orto botanico.

Letizia Laezza

Il pozzo e il pendolo- (sito ufficiale)