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I novatori napoletani di fine ‘600: quale fu il loro contributo?

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Nella Napoli di fine ‘600, un gruppo di studiosi inaugurò un nuovo clima culturale. Per questo venivano definiti “novatori“. Quale fu il loro contributo?

I novatori e l’Accademia degli Investiganti

Leonardo Di Capua

L’Accademia degli Investiganti, fondata a Napoli da Tommaso Cornelio e Leonardo Di Capua nel 1650, fu il centro istituzionale della nuova cultura. L’aspirazione dei novatori era quella di andare oltre la vecchia cultura – imperniata sulla scolastica e sull’aristotelismo – per abbracciare le più moderne tendenze europee con lo studio di autori come Cartesio e Gassendi.

Le accuse di ateismo

Nonostante il conformismo politico dei novatori, l’avversione per la scolastica non mancò di far nascere sospetti e accuse di ateismo nei loro confronti. Nel 1671 arrivò da Roma una lettera dei cardinali inquisitori in cui si condannava duramente la nuova cultura, deprecando il rischio di adulterazioni teologiche a causa dei nuovi sistemi filosofici (specie quello cartesiano). La lettera ebbe come conseguenza la fine dell’atteggiamento di apertura fino ad allora assunto dai Gesuiti e dal clero in genere (Giuseppe Galasso, 1972, p. 7).

In realtà, l’Accademia era in quegli anni già in crisi. Infatti nel 1668, vista la violenza della polemica, il vicerè aveva proibito le riunioni sia degli Investiganti sia dei loro avversari tradizionalisti: i Discordanti. Senza che questo potesse però mettere fine al dibattito sulla nuova scienza: le esigenze di rinnovamento poste dai novatori erano ormai avvertite ben oltre il gruppo originario. La crisi e lo smarrimento dei letterati napoletani fu poi acuita dal ritiro nel 1677 dallo Studio e dalla vita della città da parte di Tommaso Cornelio, seguito dalla sua morte qualche anno dopo.

La casa-biblioteca di Giuseppe Valletta

La cultura investigante trovò, in seguito, nuova linfa nelle riunioni che si svolgevano nella casa-biblioteca di Giuseppe Valletta (1648-1714). A rincuorare i novatori napoletani furono anche le visite a Napoli – nel 1686 – da parte di personaggi illustri come Mabillon e lo storico protestante Burnet. Entrambi riportarono un’impressione positiva dei letterati napoletani e contribuirono ad allargarne «la cerchia delle corrispondenze e l’ambito delle letture» (Salvo Mastellone, 1965, p. 114).

Molti novatori vennero rinfrancati dalla possibilità di tenere una corrispondenza con studiosi come Magliabechi. Da allora la nuova cultura sembrò riprendersi, Francesco d’Andrea riuscì a pubblicare postume le opere di Tomasso Cornelio rimaste inedite. Con queste parole, Salvo Mastellone descrive il nuovo clima di quella che si potrebbe definire la terza fase dell’Accademia degli Investiganti:  

I letterati napoletani verso il 1690 si erano affermati in Italia e all’estero come i promotori di un rinnovamento della cultura sulle orme delle più moderne tendenze di pensiero europeo. Nel breve spazio di poco più di un decennio essi stabilirono contatti con gli studiosi di tutti i paesi, discussero con senso critico e sensibilità problemi filologici, giuridici, scientifici e, cosa più importante, chiarirono le loro ambizioni politico-sociali (Salvo Mastellone, 1965, p. 120).

L’ultima crisi: il processo agli ateisti

Antonio Magliabechi

Un successo che sarà però funestato dalle conseguenze delle complesse vicende del processo agli ateisti (1688-1697) che di lì a poco sarebbe esploso. Tuttavia, la nuova crisi della cultura investigante era dovuta anche ad altri fattori. Dopo quasi mezzo secolo, il suo slancio intellettuale sembrava in via di esaurimento. Nonostante le intenzioni antidogmatiche, molti novatori napoletani restarono ancorati al cartesianesimo, quando nel resto d’Europa si andava affermando la nuova prospettiva newtoniana.

Un importante contributo

D’Andrea e Valletta, inoltre, erano sempre stimati ma «non erano più gli esponenti di un gruppo esteso e coordinato» (Biagio De Giovanni, 1970, p. 441), anche se seppero dare ancora un ultimo e importante contributo nel principio della tolleranza religiosa. Era ormai tempo, per loro, di abbattere le irragionevoli barriere verso i paesi protestanti, ormai «ragione e scienza fondavano nelle accademie di Europa una storia comune a cattolici e ad eretici» (Biagio De Giovanni, 1970, p. 442). L’accentuazione del carattere erasmiano dell’umanesimo napoletano attirò contro i novatori, specie il Valletta, anche l’accusa di libertinismo.

Bibliografia:

De Giovanni Biagio, 1970, La vita intellettuale a Napoli fra la metà del’600 e la restaurazione del Regno in Storia di Napoli (Tomo VI*).

Mastellone Salvo, 1965, Pensiero politico e vita culturale a Napoli nella seconda metà del Seicento, Casa editrice G. D’Anna.

Galasso Giuseppe, 1972, Napoli nel viceregno spagnolo (1696-1707) in Storia di Napoli (Tomo VII).

Ettore Barra

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Ettore Barra

È dottore magistrale in Scienze Storiche, specializzato in Storia medievale e rinascimentale. Si interessa anche di storia del Cristianesimo e di storia del pensiero e delle dottrine politiche, con particolare attenzione per il '900.

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