Letteratura italiana romantica

I promessi sposi nella poetica manzoniana

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I promessi sposi sono un classico della letteratura, ma si tratta di un romanzo molto poco “romanzesco”. Le potenzialità nascoste del capolavoro manzoniano.

Le differenze con il modello classico

I promessi sposi sono un romanzo molto diverso da quello classico europeo; Manzoni mise fortemente in crisi il modello di Walter Scott. Quest’ultimo, infatti, puntava sull’effetto a sorpresa, e prevedeva il lieto fine con un eroe problematico come Robinson Crusoe. Manzoni però non capovolse il romanzo classico, non scelse la strada della parodia o dell’antiromanzo (come Laurence Sterne e Foscolo). Quella di Manzoni è una poetica del vero, una ricerca della verità a tutti i livelli: dal religioso al filosofico. Anche nel romanzo, quindi, voleva presentare al lettore una rappresentazione realistica, senza idealizzazione della realtà.

Molto più di un romanzo provvidenzialistico

I promessi sposi non possono essere semplicemente letti in senso provvidenzialistico. La Provvidenza ricopre senza dubbio un ruolo importante, al punto che molti critici la considerano non solo un personaggio a tutti gli effetti, bensì la vera protagonista del romanzo. In effetti, essa accompagna i protagonisti durante tutta la trama, determinando il fallimento finale dei piani di don Rodrigo. Basti pensare alla provvidenzialità della conversione dell’Innominato e della sua conseguente decisione di proteggere Lucia. Tuttavia il capolavoro manzoniano presenta anche altre problematiche. Nell’opera, infatti, l’autore pone il problema dell’ineliminabilità del male. Neanche la condotta più cauta può mettere al riparo dai pericoli. Anche un sant’uomo come fra Cristoforo finisce col consegnare Lucia nelle mani della monaca di Monza, senza che potesse immaginare della sua complicità con don Rodrigo.

Un pessimismo “cosmico”

L’opera di Manzoni non si conclude con un vero lieto fine perché i personaggi acquisiscono solo conoscenze parziali che non sono in grado di generalizzare. Renzo, a differenza del Robinson Crusoe di Defoe che riesce a sopravvivere da solo su un’isola deserta, impara più che altro a non fare in base a quello che gli è successo. In mezzo ai tumulti di Milano non capisce nulla di quello che avviene perché non riesce a fare astrazione dalla propria realtà, non può riflettere sui problemi generali senza ricondurli alla propria esperienza. Per questo manca una vera crescita del personaggio.

La vigna di Renzo

La poetica manzoniana è inoltre caratterizzata da una visione pessimistica del potere. Già all’Adelchi morente aveva fatto dire che nell’esercizio del potere «non resta che far torto o patirlo». Per Manzoni non esiste un esercizio corretto del potere perché esso corrompe sempre, a tutti i livelli. Nella Ginestra, Leopardi prospettava quantomeno un’alleanza fra gli individui. Per Manzoni invece l’unica soluzione è fuori dalla storia, nella fede.

La natura ne I promessi sposi

Il pessimismo manzoniano si palesa anche nella concezione della natura. Nel capitolo XXXIII, Renzo torna a casa e vede la sua vigna abbandonata. Manzoni inserisce in questo punto una descrizione della natura che ha ripreso possesso della vigna. Una digressione inutile ai fini della narrazione e che non appartiene al personaggio ma è propria dell’autore. Si tratta quindi di un commento di quest’ultimo, ancorché non esplicito, che merita molta attenzione.

Alessandro Manzoni

La vigna è ormai dominata da una «marmaglia d’ortiche» e un «guazzabuglio di steli che facevano a soverchiarsi l’uno con l’altro nell’aria». La figura retorica qui dominante è quella dell’enumerazione, al guazzabuglio della vigna corrisponde quello della sintassi che non ha un governo razionale. L’enumerazione caotica indica che la natura è malata e illogica, impossibile darle un ordine.

La peste e il disvelamento della natura

Alla fine del romanzo fa il suo melodrammatico ingresso sulla scena una delle più inquietanti manifestazioni della natura: la peste. Con i suoi bubboni e tutte le altre tragiche conseguenze, dai lazzaretti alla caccia agli untori. In questo contesto la peste ha un preciso valore simbolico, è una grande metafora del male. La conversione di Manzoni alla fede cattolica non fu pacificante, non risolse il problema del male, era impossibile trovare una giustificazione. Le forze irrazionali della natura non possono essere represse, proprio come i bubboni. È il conflitto fra l’immagine di Dio e il male dell’uomo.

Le descrizioni della peste e della vigna di Renzo hanno anche una valenza ironica e corrosiva contro la natura idilliaca di Rousseau, tipica del XVIII secolo, e i paesaggi di Scott. Manzoni irride la visione illuministica di una natura buona e razionale che alimentava miti come quello del “buon selvaggio”. Rispetto all’Eden dell’incipit del romanzo («Quel ramo del lago di Como»), c’è alla fine il disvelamento. La vera natura è questa e alla fine riprende sempre il sopravvento, contro ogni logica: Renzo non avrebbe infatti mai più fatto ritorno nella vigna.

Ettore Barra

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Ettore Barra

È dottore magistrale in Scienze Storiche, specializzato in Storia medievale e rinascimentale. Si interessa anche di storia del Cristianesimo e di storia del pensiero e delle dottrine politiche, con particolare attenzione per il '900.

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