Storia del Cinema di Hollywood

Il fuori campo: un elemento essenziale in una struttura filmica

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In A chess dispute (Robert W. Paul, 1903) i due protagonisti giocano a scacchi ma, a un certo punto, qualcosa non va per il verso giusto e cominciano a prendersi a pugni. Paul, con questo film, realizza uno dei primi esempi di uso del fuori campo.

I due, infatti, finiscono nella parte bassa dell’inquadratura e lo spettatore può vedere solo i colpi inferti ma non quelli ricevuti (necessità tecnica data la poca esperienza attoriale o voglia di rendere l’evento comico e leggero?).

Necessità o consapevolezza, da questo momento in poi non si può far a meno di considerare il fuori campo come uno degli elementi (o strumenti) essenziali e preziosi per una qualsiasi struttura filmica.

Se negli articoli precedenti si è visto che l’inquadratura può suddividersi in diversi quadri o immagini, ora appare necessario distinguere e definire i concetti di in campo e fuori campo.

Campo e fuori campo, una definizione

Solitamente, si tende a definire come in campo «la porzione di spazio inquadrata dall’obiettivo della macchina da presa. È determinato dalla distanza tra il soggetto dell’inquadratura e la presa della stessa, nonché dall’obiettivo impiegato»[1]. In campo è, quindi, tutto ciò che effettivamente lo spettatore ha la possibilità di vedere.

Con fuori campo, invece, si intende «la porzione di spazio non inquadrata, che può svolgere un ruolo determinante nella dinamica della scena, venendo evidenziata attraverso sguardi verso il fuori campo, oppure rumori provenienti da esso»[2].

Sono diversi i modi attraverso i quali creare un ponte, un dialogo, all’interno dell’inquadratura con ciò che sta fuori campo e, grazie allo studio fatto da Noel Burch (in Prassi del cinema, 1969), si possono individuare sei diverse aree possibili del fuori campo: quattro che stanno ai lati dell’inquadratura (collegabili con essa anche e soprattutto attraverso un raccordo sullo sguardo), una che è oltre la scenografia e un’ultima che sta dietro la macchina da presa.

Come si è detto, uno dei modi per esplicitare il fuori campo è attraverso lo sguardo del personaggio, o, in senso più generale, attraverso le sue interpellazioni.

Ciò che nasce dal rapporto tra il campo e il fuori campo (e, essenzialmente, il motivo per il quale si utilizza tale rapporto) è una particolare dialettica tra il personaggio (che vede e che sa) e lo spettatore (che non può vedere e che non può sapere).

Non bisogna dimenticare che anche attraverso un corretto utilizzo del suono si ha la possibilità di esplicitare l’esistenza di un fuori campo (attraverso il suono-off[3]): la voce di un personaggio o la musica proveniente da una radio, se non inquadrati, possono fungere da ponte sonoro, da collegamento, con un fuori campo.

Il rapporto tra campo e fuori campo genera, quindi, uno stato di curiosità, di interessamento dello spettatore nei confronti di ciò che non può vedere/conoscere ma non solo, in alcuni casi, può segnare la rottura della quarta parete e rendere visibile lo spazio della produzione. Il fuori campo proibito può, in questo modo, conquistare il campo come ad esempio avviene nel finale di E la nave va di Federico Fellini (1983).

Il mostro di Düsseldorf

Uno dei casi più interessanti (e tra quelli più analizzati) di sapiente utilizzo del rapporto tra in campo e fuori campo è quello dato da Fritz Lang in M, il mostro di Düsseldorf (1931).

Tutta la parte iniziale del film è, infatti, un esempio perfetto per quel che riguarda l’uso espressivo del fuori campo.

«Quando si fanno sentire, però, stiamo tranquille e almeno si sa che sono ancora vivi»

Tutta la lunga parte iniziale di M, nel suo articolarsi attentamente sulla dialettica di campo e fuori campo, è scandita da un gioco di anticipazioni, ripetizioni con varianti e dal passaggio di un sentimento rassicurante a uno di inquietudine, di terrore per ciò che potrebbe essere successo.

Il fuori campo ha, di fatto, un ruolo essenziale non solo sullo spazio ma anche sul tempo. L’assassinio non viene mostrato, ma suggerito, e lo spazio che lo spettatore non ha visto e che non ha abitato diviene anche un tempo che non ha vissuto.

Ma non è la vita stessa un continuo intreccio con ciò che non si può vedere, con ciò che non c’è o ciò che non c’è più?

Cira Pinto

Bibliografia essenziale:

Note:

[1] P. BERTETTO (a cura di), Introduzione alla storia del cinema, p. 349.
[2] Ibid., p. 353.
[3] A questo proposito si consiglia caldamente la lettura de L’audiovisione, di M. CHION.

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Cira Pinto

Cira Pinto, nata a Torre del Greco l'8 dicembre del 1990. Cresciuta tra le videocassette Disney e le ginestre che tanto hanno ispirato Leopardi, decide il suo futuro accademico guardando ''Biancaneve e i sette nani''. Laureata al corso di laurea magistrale in Filosofia presso l'Università di Napoli Federico II con una tesi in Filosofia Morale dal titolo ''Il cinema come arte del tempo. l'analisi deleuziana, tra classicità e modernità''. Ha frequentato il corso di Analisi e critica cinematografica e quello di Sceneggiatura alla scuola di cinema, televisione e fotografia Pigrecoemme. Collabora con LaCOOLtura da gennaio 2015.

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