Gomorra di Roberto Saviano: Letteratura e Mimesis

“Oggi c’è il mio ruolo di protomartire che è tostissimo per uno scrittore: lo scrittore deve sbagliare, incasinarsi, vivere. Io ho una vita disciplinatissima in cui per fare tutto quello che un uomo fa mi ritrovo in compagnia di molte persone, della mia amata scorta. Tutto questo incide sulla scrittura e incide per il fatto che sono scrittore per pochi, per molti sono un simbolo, e questo fa male”
(Per la collana “io Scrivo” Antonio D’Orrico intervista Roberto Saviano, 2011)

 La mediazione per la rappresentazione

“La mediazione narrativa mostra innanzitutto che l’attività mimetica è una lettura, non una copia del mondo. Implicita in ogni arte, la natura ermeneutica della mimesis si rivela nei racconti, perché il narratore fornisce una consistenza sensibile al lato soggettivo, interpretante della mimesis.”
(Teoria del romanzo – Guido Mazzoni)

Guido Mazzoni

Il termine mimesis ha un’origine millenaria (fu introdotto da Platone nel X libro della Repubblica) ma è ancora ampiamente utilizzato dalla critica che lo ha dotato, nel corso dei secoli, di una portata semantica molto più larga.
Platone identifica in mimesis la categoria onnicomprensiva che registra tutte le arti imitative, le arti che scompongono la realtà nel tentativo di fissarla concretamente attraverso l’adozione di un preciso codice e mezzo espressivo, e che si macchiano, a parer suo, della presunzione di rivendicare un potere conoscitivo.
Nel 1946 il filologo tedesco Erich Auerbach pubblica un libro dal titolo emblematico: “Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale”. L’analisi della Conclusione, l’ultimo capitolo dell’opera divisa in due volumi, rivela lo slittamento da categoria a concetto, laddove i referenti di mimesis sono “rappresentazione” e “imitazione” della realtà:

“L’argomento di questi studi, l’interpretazione della realtà per mezzo della rappresentazione letteraria o « imitazione », mi occupa da lunghissimo tempo […]”

MimesisSi fa riferimento dunque non ad una categoria, bensì ad un’attività artistica, circoscritta in questo caso all’ambito della Letteratura, che è appunto l’attività mimetica di cui scrive Mazzoni, la capacità imitativa che manifesta l’aspirazione dell’uomo alla conquista della realtà attraverso la scrittura.
Tracciare, seppur in modo grossolano, i contorni della mimesis è un lavoro propedeutico alla comprensione della narrativa: evidenziato nello stralcio di testo riportato ad inizio pagina, il discrimine tra essa e le altre forme d’arte sta nella consistenza sensibile della sua natura ermeneutica.
Che la mimesis, riferita a tutte le produzioni artistiche, sia una lettura e non una copia del mondo è un postulato già da qualche secolo e Auerbach nel ’46 ha avuto il merito di mostrare come e perché sia così, trattando ampiamente la storia del Realismo occidentale “come espressione dei mutamenti della percezione della realtà da parte degli uomini” (sottotitolo della prima edizione dell’opera, poi ridotto). Ma dicevamo del discrimine: che cosa nella narrativa riesce a conferire consistenza sensibile alla natura ermeneutica dell’attività mimetica? Il narratore.

“Illuminante a questo proposito il confronto col teatro. I testi che appartengono alla forma classica della letteratura drammatica riproducono i discorsi e i gesti umani senza il filtro di una voce intermedia, secondo un’idea illusionistica che la teoria teatrale moderna riassume nel principio della quarta parete trasparente. La narrativa presuppone invece un filtro: l’aspetto e le azioni degli eroi, lo spazio fisico e culturale che li circonda, i pensieri e le passioni che li agitano non esistono in forma sensibile davanti allo spettatore, ma prendono vita solo attraverso una parola interpretante.”
(Teoria del romanzo – Guido Mazzoni)

Solo la parola interpretante, pur ignorando una certa immediatezza sensibile, riesce ad appropriarsi “di quei territori che la nostra cultura conosce solo attraverso il medium del linguaggio, a cominciare dai livelli di realtà che trascendono i sensi”

Gomorra: quale verità?

Un’introduzione esauriente era fondamentale per aprire il discorso “Gomorra”, dal momento che, tralasciando i giudizi di valore, sullo statuto del libro e sulla natura della sua parola è stato detto molto.

“Ciò di cui si parla qui non è tanto la realtà, quanto una verità che, senza poter mai prescindere da quella, se ne solleva; e la verità, che esiste nei discorsi anziché nelle cose, va sempre sottoposta a controlli. Non c’è verità che non sia sempre insidiata dal sospetto della falsificazione, e che perciò non vada strappata al pericolo della falsificazione […] Il sapere di Saviano, che viene pure da un lavoro di ricerca, non rivendica altro privilegio che l’esperienza. Come una testimonianza esso è parziale sia perché non possiede affatto l’intero, sia perché parla da una posizione soggettiva ribadita con insistenza (« Io so […] Io vedo, trasento, guardo, parlo e così testimonio)”

Raffaele Donnarumma analizza il “caso Saviano” nelle primissime pagine del suo “Ipermodernità – dove va la narrativa contemporanea” sintetizzando in maniera chiara gli elementi
di rottura che il romanzo Gomorra introdusse nel panorama letterario italiano poco dopo la sua pubblicazione nel 2006. Saviano ci proietta in un contesto in cui l’operazione
del narratore mediatore è molto forte, nonostante non lo si consideri solo come testimonianza dell’ermeneutica della mimesis, ma come agente di mediazione che conduce a verità; una scrittura narrativa che è la rappresentazione di un mondo visto attraverso la lettura delle iridi.

“Le prove sono inconfutabili perché parziali, riprese con le iridi, raccontate con le parole e temprate con le emozioni rimbalzate su ferri e legni”
(Gomorra. Viaggio nell’Impero economico e nel sogno di dominio della camorra – Roberto
Saviano)

E solo questa lettura, quella del narratore/autore/eroe in un complesso gIpermodernitàioco autofinzionale, corrisponde a verità.
Per questo, o anche per questo, Gomorra abita la Letteratura, perché rivendica la mediazione narrativa della parola interpretante e anzi la innalza ad unico e possibile criterio di conoscenza.
Pasquale, l’abile sarto di Arzano che lavora in nero per le griffe dell’alta moda, conserva nel portafogli un ritaglio di giornale raffigurante Angelina Jolie col tailleur bianco cucito con le sue mani; un ragazzino di Secondigliano racconta agli amici com’è che un giorno vorrebbe essere ammazzato.
Questo è in sintesi l’atto di parola di un romanzo che non racconta una verità attraverso la scrittura, ma che rende la scrittura stessa esempio di verità.

Marco Terracciano