Moralismo e senso di colpa nella fede secondo Sovernigo

Con l’espressione moralismo o moralistico, si intende descrivere una visione distorta e colpevolizzante dell’esperienza morale. L’approccio migliore per affrontare questo ambito risulta essere quello interdisciplinare. La morale si trova infatti ad un crocevia in cui si intersecano molteplici punti di vista. Sarebbe riduttivo affrontare il tema del moralismo assolutizzando una prospettiva sulle altre. Filosofia, psicologia e teologia, se correttamente integrate, possono accostarsi alla morale rispettando la sua complessità.

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Moralismo: la triade adolescenziale

Il moralismo, insieme al perfezionismo e all’idealismo, forma la cosiddetta triade adolescenziale. Si tratta di una trappola dello sviluppo dell’io, che nel laborioso tentativo di elaborare l’ineludibile esperienza della colpa, rischia di incagliarsi.
Moralismo, perfezionismo ed idealismo sono spesso considerati insieme perché derivano da una mancata assunzione positiva del senso di colpa psichico. Il perfezionismo consiste nel non riuscire ad accettare la parzialità strutturale della realtà. Il senso di colpa rimosso conduce a rifiutare integralmente ogni possibilità di fallimento o di riuscita parziale.

 Nell’idealismo, la colpa rimossa induce a rifugiarsi in un ideale che conferisce sicurezza in cambio dell’estraniazione dalla realtà. Il moralismo, parallelamente, nasce dal rifiuto della propria finitudine e perde di vista la dinamica positiva dell’esperienza morale che comporta l’accettazione e l’assunzione della colpa. Risulta chiaro come, al di là delle distinzioni didattiche, il perfezionismo, l’idealismo e il moralismo siano profondamente connessi fra loro.

Moralismo e morale

Una grande equivoco è quello che deriva dall’identificazione della morale con il moralismo. Di fronte all’acredine e all’aspro giudizio connessi ad un atteggiamento incline al moralismo, la soluzione a buon mercato è spesso quella che liquida la morale tout court. Perseguire i valori cardine della modernità come la libertà e la tolleranza, non è in antitesi con il sostenere l’oggettività di una sfera valoriale.

 Il rischio è quello di pensare che l’unica morale possibile in un contesto globalizzato e postmoderno sia quella relativistica. Questa visione erronea confonde la morale con il moralismo. La morale distingue sempre la persona dalle sue singole scelte. Non nel senso che esse non le sarebbero imputabili, ma nel senso che riconosce sempre l’eccedenza della persona rispetto alle sue azioni. Se le scelte derivano dal soggetto, non coincidono però con esso. La persona, nella morale, può sempre scegliere di essere altro rispetto alle sue scelte e a ciò che le hanno determinate. Essa detiene la capacità di emendarsi, di pentirsi, di cambiare.

Al contrario, il moralismo si caratterizza per essere un sistema chiuso. In esso la colpa conduce alla paralisi, il valore morale perde di vista il suo scopo, la persona e la sua tutela, per divenire un assoluto fine a sé stesso. Il moralismo induce a sviluppare atteggiamenti come la diffidenza, la sfiducia, il risentimento e il giudizio su sé stessi e su gli altri. La morale si contraddistingue invece per l’accettazione di sé e dell’altro, la distinzione dell’io dalle sue scelte, la capacità di perdono. Un’ottica relativistica che rifiuta un orizzonte oggettivo di valori sembra molto più vicina all’esperienza paralizzante del senso di colpa psichico rispetto alla dinamica positiva dell’accettazione della propria ed altrui finitudine.

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Alle radici del moralismo: senso di colpa psichico, morale e senso del peccato secondo G. Sovernigo.

Moralismo ed esperienza religiosa

La religione cristiana viene spesso stigmatizzata ed identificata come moralismo. In realtà bisogna distinguere tra la novità e la ricchezza che la fede cristiana ha apportato all’esperienza morale e la capacità soggettiva della sua comprensione. Ovvero, la storia della salvezza narrata nella Bibbia conduce ben oltre il senso di colpa psichico. Se quest’ultimo è un circolo vizioso che blocca il soggetto ripiegandolo su sé stesso, la dinamica biblica libera dal solipsismo della colpa e dal moralismo.

Dio si propone e si manifesta come interlocutore dell’uomo. L’esperienza intrasoggettiva e paralizzante della colpa, viene posta di fronte a Dio. Essa diventa esperienza del peccato nel momento in cui la fede dona una nuova comprensione del reale. L’ottica biblica non sottolinea il solipsismo del senso di colpa, ma mostra il volto di un Dio che si rivela e si dona all’uomo. L’esperienza della colpa è una caratteristica ineliminabile della psiche. La questione non è quindi quella di eliminare il senso di colpa, tentativo illusorio, ma di elaborarlo correttamente. La rimozione moderna del senso del peccato ha solamente condotto ad ingigantire il senso di colpa. Esso è pensabile come una macchia che contamina in modo indelebile: non c’è salvezza dal senso di colpa psichico.

Il senso del peccato guarda invece a Dio, lungi dal chiudere il soggetto su di sé, lo chiama al dialogo. La persona, nella misura in cui sarà accompagnata ad incontrare un Dio innamorato dell’uomo, potrà scoprire la sorgente del perdono e progredire verso l’assunzione positiva e l’accettazione serena della propria colpa. Il cammino che conduce dall’esperienza del senso di colpa psichico al senso del peccato, è molto laborioso e si svolge secondo le tappe ed i momenti propri ad ognuno. Inoltre, non è un itinerario da svolgere una tantum, ma una dinamica continua che interessa l’intera esistenza del credente e che lo porta alla graduale liberazione da trappole come il moralismo.

Mostriamo un esempio concreto della scoperta positiva che conduce dallo stallo della colpa all’incontro con il Dio liberatore:

Vi piaccia o meno – osserva Sonia, 22 anni, infermiera – per me Gesù Cristo è stato prima di tutto fonte di timore e molto spesso di angoscia di fronte alla mia debolezza umana in rapporto al giudizio di Dio che mi terrorizzava. Lo amavo e dicevo di amarlo, ma era falso. Lo temevo e cercavo di scacciarlo per dimenticarlo. Mi impediva di essere me stessa, poiché essere me stessa significava essere debole, vulnerabile, e non mi sentivo mai degna di credere in lui. Dovevo mantenere le promesse che si rivelavano superiori alle mie forze, e meno mantenevo quelle promesse, più mi allontanavo da Dio. Mi vergognavo di me stessa. Allontanandomi da Dio, comincia a respirare, a rilassarmi e a poco a poco ad accettarmi. Mi misi allora a riflettere su me stessa anzitutto, sul mondo, sulla debolezza dei fratelli, di coloro che amavo. Incomincia ad amarli di più, a guardarli. Ogni tanto vi riconoscevo Dio. Quanto più grande era la debolezza che vedevo in un essere, tanto più grande era la voglia di amarlo. Allora compresi. Se io, povero essere umano, amavo gli altri, anche e forse a causa della loro debolezza, perché Dio avrebbe dato suo figlio al mondo se non per noi? Da quel momento non lo respingo più. Non osservo bene i suoi comandamenti, ma so che mi ama e non ho più paura di lui[1].

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La testimonianza, mostra il passaggio da un’iniziale esperienza negativa di una falsa immagine di Dio, alla scoperta del Dio biblico. Risulta evidente il cambiamento di prospettiva: da un Dio sotto il segno del moralismo e del giudizio al Dio che libera. G. Sovernigo colloca il brano nel contesto della necessità della distinzione tra religione e morale. Al centro si colloca l’evento della Rivelazione del Dio di Gesù Cristo, la morale, in quest’ottica, diventa la risposta al dono gratuito ricevuto e non il moralismo del dovere fine a sé stesso.

Christian Sabbatini

Fonti

Immagine in evidenza: blogueirasdesling.wordpress.com

Immagini media: blogueirasdesling.wordpress.com, G. Sovernigo, Senso di colpa, peccato e confessione, 131, andreamonda.it

Bibliografia

G. Sovernigo, Senso di colpa, peccato e confessione. Aspetti psicopedagogici, EDB, Bologna 2000 (Psicologia e Formazione, 21).
[1] G. Sovernigo, Senso di colpa, peccato e confessione, 221.