Hugh Jackman è un attore australiano arcinoto per l’aver portato basettoni cespugliosi e lame tra le dita in sette film Marvel (“X-Men” – 2000 e “X-Men 2” – 2003 di Bryan Singer; “X-Men – Conflitto finale” di Brett Ratner – 2006; “X-Men le origini – Wolverine” di Gavin Hood – 2009; “X-Men – L’inizio” di Matthew Vaughn – 2011; “Wolverine – L’immortale” di James Mangold 2013; “X-Men: Giorni di un futuro passato” ancora di Bryan Singer – 2014) senza contare quelli ancora non usciti, invecchiando in un ruolo incollato tanto saldamente al suo metro e novanta circa, da essere entrato nell’immaginario comune prevalentemente sotto le sue sembianze.
Si tratta di Wolverine, naturalmente, un personaggio modellato dall’attore sulle movenze guardinghe di un lupo che squadra con diffidenza dal basso l’estraneo, naso sempre in direzione del terreno e sguardo schermato dalle sopracciglia aggrottate.
Ma nel frattempo…
Ora, Hugh Jackman non è un signor Nessuno pieno unicamente di muscoli e senza talento, quindi torna a casa dall’impresa vincitore. Però, ecco il però: nessuno mai gli riproporrà parti maschili in commedie romantiche. Consideriamo la sua figura ingombrante, la sua poca grazia, la delicatezza inesistente nei tratti, la pelle scura di sole, forse troppi anni sulle spalle, la sua espressività marcata…
Insomma, perché sprecare tanto bendidio per sciocchezzuole rosa? Se deve essere innamorato, che sia almeno un ammazzavampiri.
Nel 2004 esce “Van Helsing” (Stephen Sommers), un film senza troppi pregi e con innumerevoli difetti, volto al dark, forse allo steampunk, confusionario, di cattivo gusto persino per gli anni in cui uscì. Ebbene, Hugh Jackman ne alza il livello all’impensabile. Con lui, la figura di Van Helsing, l’uccisore di Dracula, acquisisce una forza e uno spessore di sicuro imprevisti. La pellicola nel suo insieme rimane un minestrone di Transilvania, Roma Cattolica, paletti di legno e pipistrelli umanoidi, ma è davvero senza prezzo guardare Hugh Jackman che armonizza una seppur minimamente cesellata personalità – addirittura sfumata tra senso del dovere e ira – con l’obbligatoria prestanza fisica placcata di armi di vario tipo e abiti di pelle da brivido.
Di là, si parte con personaggi sempre più sibillini. Woody Allen lo vuole per “Scoop” (2006), Christopher Nolan per “The prestige” (2006), Marcel Langenegger per “Sex List – Omicidio a tre” (2007), più tardi Neill Blomkamp per “Humandroid” (2015). È quasi magico come il luccichio degli occhi possa essere dapprima così rassicurante e limpido, e un attimo dopo ironico, astuto e crudele.
Per contro, parti come Jean Valjean in “Les Misérables” (Tom Hooper – 2012) o Keller in “Prisoners” (Denis Villeneuve – 2013) richiedono a Hugh Jackman non solo l’abilità metamorfica di cui ha già dato prova nella stratificazione complessa dei suoi personaggi precedenti, ma anche qualcosa di più costoso: capire e comprendere
Il primo è monumentale, degno della propria storia letteraria, teatrale e cinematografica. Il suo volto è un coacervo di cicatrici dalle origini più disparate e lontane, tutte monito per il futuro, così da dare congiuntamente corpo ed esperienza all’uomo, al padre, al fuggiasco, al filo conduttore all’epopea storico-sociale che è “Les Misérables”. Valjean è l’uomo che è per ragioni fondate e solide, tutte annodate a far da scheletro al suo presente, visibili a lui soltanto e a chi ne conosce la storia.
Il secondo, Keller, è tanto umano e tanto sofferente da essere doloroso da guardare.
Ed è solo una declinazione della dedizione instancabile del nostro Hugh Jackman, della sua così riconoscibile imponenza – e non parliamo di corporatura – e della sua caratterizzazione costantemente peculiare, distintiva e memorabile.
Chiara Orefice
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