Storia del Cinema di Hollywood

Il primo piano: un’analisi tecnica ed estetica

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Il primo piano (PP), un’analisi tecnica

Innanzitutto dovremmo definire cos’è il primo piano: esso è un’inquadratura in cui la figura umana è inquadrata dalle spalle in su e viene spesso utilizzato per far risaltare i protagonisti.

Norma Desmond nel film Viale del tramonto, mentre pronuncia le parole “All right, Mr. DeMille, I’m ready for my close-up” (“Va bene, sig. DeMille, sono pronta per il mio close-up”) nel finale del film.

Il padre teorico del primo piano è David Wark Griffith, prima, infatti, il primo piano veniva considerato essenzialmente come uno zoom. Grazie a lui, diventa lo strumento principale attraverso il quale si possono definire i caratteri psicologici dei protagonisti: i volti sono capaci di mostrare i pensieri e la stessa anima dei personaggi1.

Il primo piano (PP) si distingue, poi, dal mezzo primo piano (MPP), dal primissimo piano (PPP), dal particolare (Part.) e dal dettaglio (Dett.).

– Il mezzo primo piano (MPP) è un’inquadratura che va dal petto in su. Il primo caso di mezzo primo piano probabilmente appartiene a Edwin S. Porter: in Assalto al treno (The Great Train Robbery – 1903), quando il bandito si rivolge direttamente agli spettatori.

– Il primissimo piano (PPP) è, invece, un’inquadratura nella quale il volto del protagonista riempie l’inquadratura (generalmente va dall’attaccatura del capelli alla metà del collo).

– Il dettaglio (Dett.) è una parte del volto o del corpo ripresa molto da vicino e invece il particolare (Part.) si riferisce esclusivamente ad un oggetto materiale.

Il primo piano come immagine-affezione

«L’immagine-affezione è il primo piano, e il primo piano è il volto…»[2]

Deleuze riprende ciò che suggeriva Ejzenštejn a proposito del primo piano, affermando che esso da una lettura affettiva a tutto il film.

Per lo stesso Fellini l’inquadratura stretta è uno dei mezzi per mostrare la complessità psicologica dei personaggi della storia:

«Nel cinema, il primo piano del viso ha come due poli; far sì che il viso rifletta la luce o, invece, farne risalire le ombre, fino a immergerlo in un’impietosa oscurità».

Il viso, in effetti, consente alla narrazione di seguire la sua logica interna e chiede allo spettatore di trovare in essa il proprio posto.

Esso è, effettivamente, il segno della condizione umana. Si presenta come una superficie che permette al nostro sguardo di esplorare il territorio individuale di chi ci sta di fronte. Il viso non può assolutamente essere solo una “parete” esterna, esso esprime tutta la complessità dell’anima.

Sempre Deleuze, riprendendo la definizione bergsoniana di affetto (che ha come caratteristica principale una serie di micro-movimenti su una lastra nervosa immobilizzata) afferma che:

«Il volto è quella lastra nervosa porta-organi che ha sacrificato l’essenziale della propria mobilità globale, e che raccoglie o esprime apertamente ogni specie di piccoli movimenti locali che il resto del corpo tiene normalmente nascosti.»[3]

e fa riferimento al famoso primo piano di Griffith in Enoch Arden, dove una giovane donna pensa a suo marito.

Il primo piano, sottolinea Deleuze, non strappa affatto il suo oggetto da un insieme particolare ma «lo astrae da ogni coordinata spazio-temporale, cioè lo eleva a stato di Entità»[4]

L’espressione del volto e il suo significato non hanno alcun legame con lo spazio. Quest’ultimo non esiste più nella nostra percezione. Anche quando implicano la presenza di uno sfondo (nel caso della profondità di campo), il primo piano conserva sempre il potere di strappare l’immagine alle coordinate spazio-temporali per far emergere l’affetto puro.

Ingmar Bergman è senza dubbio l’autore che ha insistito di più sul legame fondamentale che unisce il cinema, il volto e il primo piano:

«Il nostro lavoro comincia con il volto umano […]. La possibilità di avvicinarsi al volto umano è l’originalità prima e la qualità distintiva del cinema»[5]

Il primo piano, con Bergman, è il volto che si è disfatto della sua triplice funzione[6].

I volti convergono, si prestano i loro ricordi e si confondono.

In Persona (id. 1966) il primo piano sospende l’individuazione.

«Il volto unico e sconvolto unisce una parte dell’uno e una parte dell’altro. […] Assorbe i due esseri, e li assorbe nel vuoto.»[7]

Bergman si dimostra, quindi, di essere capace di portare al limite il concetto di immagine-affezione mettendo la paura del volto di fronte al proprio nulla.

Cira Pinto

1Sergio Leone addirittura utilizza dei close-up estremi nei quali non viene mostrato niente di più che gli occhi dell’attore.
2G. Deleuze, L’immagine-movimento, pag. 109.
3Op. cit., pag. 110.
4Op. cit., pag. 118.
5Bergman, in “Cahiers du cinéma”, ottobre 1959.
6Individuante (individua la persona); socializzante (manifesta il ruolo sociale); comunicante (comunica affetto).
7Deleuze, op. cit. pag. 123.

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Cira Pinto

Cira Pinto, nata a Torre del Greco l'8 dicembre del 1990. Cresciuta tra le videocassette Disney e le ginestre che tanto hanno ispirato Leopardi, decide il suo futuro accademico guardando ''Biancaneve e i sette nani''. Laureata al corso di laurea magistrale in Filosofia presso l'Università di Napoli Federico II con una tesi in Filosofia Morale dal titolo ''Il cinema come arte del tempo. l'analisi deleuziana, tra classicità e modernità''. Ha frequentato il corso di Analisi e critica cinematografica e quello di Sceneggiatura alla scuola di cinema, televisione e fotografia Pigrecoemme. Collabora con LaCOOLtura da gennaio 2015.

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