Esilio e letteratura: Marot e il XVI secolo

« Quercy, la corte, il Piemonte, l’Universo
mi fece, mi tenne, mi seppellì, mi conobbe;
Quercy ebbe la mia lode, la corte il mio tempo,
il Piemonte le mie ossa e l’Universo i miei versi.

(Epitaffio di Clemént Marot)

Un periodo duro quello tra Il XVI e il XVII secolo: Crisi economiche, guerre, rivolte, epidemie… e religione. Mai come nel 600, infatti,  la morsa della chiesa fu così forte. La diffusione del protestantesimo luterano porta il concilio di Trento  a rendere più forti i poteri della Chiesa. Una rinascita cattolica, conosciuta con il nome di Controriforma.

In un clima in cui il dogma cattolico è considerato qualcosa di inattacabile, la vita per filosofi e scrittori è dura. Le loro opere ed idee vengono considerate scelleratezze partorite dal diavolo e non raramente spettano le crudeli torture del Santo Uffizio e dell’Inquisizione spagnola. Alcuni pagano con la vita il coraggio di portare avanti le proprie idee (Giordano Bruno), altri preferiscono usare la maschera del barocco per continuare a scrivere senza problemi (Giovanbattista Marino), ma anche in questo periodo l’esilio rimane l’unica via per sottrarsi all’insania della storia.

La riscoperta del topos ovidiano: Clément Marot

Marot
Clemént Marot

Su Clément Marot, poeta prediletto alla corte di Francesco I di Francia, pendeva l’accusa di essere un libertino e di aver sedotto molte donne, cosa che gli costò due volte il carcere ( nel 1526 e nel 1527).  Ma il 1534 fu l’anno del definitivo addio alla Francia. Il “caso dei manifesti” portò all’inizio delle guerre di religione tra cattolici e protestanti. Poichè Marot aveva simpatie per questi ultimi il re, essendo cattolico, lo allontanò dalla corte. Viaggiò allora in Svizzera e in Italia, dove si stabilì definitivamente a Torino.

Durante l’esilio, Marot ebbe occasione di poter approfondire lo studio dei classici, soprattutto Ovidio. Il poeta dell’ ars amatoria avrà molta influenza sulla sua produzione poetica e lo dimostra una lettera in versi inviata al re durante il soggiorno a Ferrara (Au roy de Ferrare):

(…)

Mi hanno dato del luterano

Io rispondo: “No”. Non è vero.

Lutero non scese per me dal cielo

Lutero non fu messo in croce

per i miei peccati.

(…)

Marot
Ferrara

L’archetipo ovidiano viene allora completamente rispolverato. L’esiliato Marot si sente un exul immeritus alla stregua di Dante, un uomo che fu condannato a vagare per il mondo a causa del suo appoggio ai protestanti. Oramai abbandonato e dimenticato dal re, con cui tenta inutilmente di riconciliarsi, Marot cerca allora l’aiuto estremo da un’autorità più alta dello stesso sovrano: Dio.

O Signore, consentimi di credere

che mi hai scelto per la tua gloria.

Demoni e serpenti attoricigliati

Sono inviati in nome della tua gloria.

(…)

E se hai destinato il mio corpo

ad essere consumato dal fuoco un giorno

fa che alla fine succeda non per causa bizzarra,

Ma anzi, per tuo volere e secondo la tua parola.

(…)

Ecco che compare un altro topos nell’esilio di Marot: quello della redenzione. Il poeta, sentendo il peso delle accuse  attaccato alla pelle, affida la sua anima al sovrano del cielo affinché riesca a purificarlo e a poterlo accogliere nella sua corte celeste. Un pellegrinaggio dell’anima, dove il poeta mette a disposizione della divinità la propria ars poetica e i propri ingegni nella speranza di trovare la felicità in cielo.

L’intolleranza della “cattolicissima” Spagna. Enrìquez Gòmez e i sefarditi

Già cacciati una prima volta dalla Spagna nel 1492, tra XVI e XVII secolo gli ebrei continuarono ad abbandonare  il paese. Si dispersero soprattutto in alcune regioni dell’impero Ottomano dove furono bene accolti dalla tolleranza religiosa dei mussulmani, formano così comunità di ebrei sefaraditi (da Sefarad, “Spagna” in lingua ebraica).

Marot
Il “Lazarillo de Tormes”, pubblicato nel 1525 da un anonimo autore, è considerato il primo romanzo “picaresco”.

Tra gli autori più importanti di questa enorme comunità vi è Enrìquez Gòmez. Già come fece all’epoca Marot, anche Goméz rispolvera le esperienze di Ovidio e di Dante e lo fa attraverso la narrativa, ma soprattutto con il teatro. Attraverso la narrazione picaresca descrive la vita degli esiliati nei minimi dettagli, arrivando addirittura a trasformarli in veri e propri emarginati disposti ad ogni azione per raggiungere i propri scopi, ma non mancano neanche qui esempi di pellegrinaggio come nella commedia Fernàn Méndez Pinto. Ma è un pellegrinaggio in cui la redenzione non è qualcosa con cui farsi appagare da Dio, ma un vero e proprio viaggio per riscoprire se stessi. Questa particolarità, per niente banale, verrà rispolverata anche nei secoli avvenire.

Ciro Gianluigi Barbato