Valhalla Rising – Regno di sangue: l’analisi del film

Quando esce “Valhalla Rising“, Nicolas Winding Refn ha alle spalle “Bronson”, fresco fresco di uscita e pronto a dorare la strada al suo creatore verso l’Olimpo dei registi; ha alle spalle “Pusher”, trilogia che non ha bisogno di altro commento se non un sentito e caldo “guardatela”; ha alle spalle “Bleeder”, graffito autobiografico raschiato sulla solita Copenaghen buia e animale.

Valhalla Rising

È il 2009, dunque, quando esce “Valhalla Rising”, e Refn è adulto.

One-eye

Sporco in ogni sua parte, insudiciato del sangue dei suoi omicidi più che sulla pelle al di sotto di essa, nutrito e imbevuto di odio, muto, impassibile, mezzo cieco e, per questo, come da tradizione classica, tormentato da visioni profetiche: One-eye è un prigioniero di vichinghi pagani che ne fanno una fonte di guadagno e di protezione.

In lui riconosciamo Mads Mikkelsen, la “musa” di Refn. Eppure è solo una somiglianza nell’aspetto, valida per le riviste di cinema e i red carpet, insomma per l’universo che conosciamo noi e che sembra più che finto al confronto con la Scozia bruta della pellicola. Mads Mikkelsen è trasformato in una maschera di attesa della vendetta, di creatura dell’inferno.

Valhalla Rising

È così che il ragazzo che si occupa di lui presenta il guerriero muto: proviene dall’inferno. E sono senza disprezzo le sue parole, ma anzi, vibrano di autorità perché sono una garanzia.

La redenzione

Le origini infernali di One-eye sono garanzia di protezione allorché i cristiani, nuovi compagni di viaggio, tentano di arrivare in Terra Santa e si ritrovano su sponde fangose, ricoperte di nebbia fitta e, più in là, di foreste. Proprio quei cristiani che erano accorsi ingenuamente disperati verso la promessa di redenzione, alla conquista della terra di Gesù Cristo, sono dispersi su terre che non hanno niente del mondo reale.

Valhalla Rising

Sono approdati su un terreno ben più adatto di Gerusalemme a fargli conquistare la santità: una landa infernale di pericolo, pazzia, violenza. Deboli, fragili, con le cattiverie umane nascoste malamente sotto un sottile strato di fede in Dio, i miseri figli della loro cultura non sono in grado di superare la prova.

La foresta, elemento iniziatico di molte leggende che dall’alba dei tempi sondano i recessi umani, si staglia pronta ad essere attraversata. E One-eye è il solo ad averlo capito. Dà inizio a un rito che lo porterà, a modo suo, ad essere ciò che i cristiani volevano e non sono riusciti a diventare: un salvatore.

Rosso sangue, grigia pietra, nera acqua

È incredibile quanto i colori siano importanti in “Valhalla Rising”, persino più della caratteristica colonna sonora che sostituisce i dialoghi e i pensieri in moltissime occasioni. Sono colori privi di sfumature, violenti e cupi, inquietanti perché suggeriscono all’inconscio, senza che ci sia bisogno di troppe chiacchiere, che quelle sponde non sono più geograficamente verificabili, ma sono appena un passo fuori dalla portata della mente umana.

Valhalla Rising

Sono le terre mistiche apparse a chi ha dichiarato di volersi innalzare verso la divinità, sono il deserto dei quaranta giorni di tentazioni e solitudine. E non è un paradiso per finti misericordiosi, la meta che sta oltre la foresta, sulle coste che finalmente liberano lo sguardo sulla distesa di acqua salata: no, è il Valhalla, la sala dove i gloriosi guerrieri vanno a riposare.

Quanta eleganza Refn mette nella costruzione di una crociata onirica, evitando con sobrietà l’esasperazione della violenza in cui avrebbe potuto cadere, o la verbosità di un narratore che non ha fiducia nella sensibilità del suo spettatore. Refn si rivolge a qualcosa che è al di là del senso del bello o del gusto del ragionamento, ma salta direttamente verso un retaggio più antico, una tendenza che gli uomini hanno ancora nel sangue, sotto pigrizia e velleità, e che è un intuito ereditario collettivo della nostra intera specie, originario di quando eravamo creature essenziali al centro tra natura e divinità.

“Valhalla Rising” ha per argomento una verità dell’intera storia umana, così universale, antica e profonda, da non poter più essere relegata alle strade di Copenaghen: aveva bisogno del territorio ancestrale dei miti.

Chiara Orefice

 

Fonte: IMDb