La pietà e l’empatia ne La ginestra di Leopardi e in Schopenhauer

Nell’articolo precedente, si è posto al vaglio il legame prettamente esistenziale che intercorre tra il pensiero di Leopardi e quello di Schopenhauer; si tenterà ora di ampliare l’esposizione contestualizzando temporalmente e socialmente le due figure letterarie. Contrariamente a quanto si possa pensare, una simile operazione è tutt’altro che storicistica: come sarà a breve manifesto, sia nell’uno che nell’altro autore la netta alienazione rispetto alle tendenze della propria epoca (siano esse l’idealismo postkantiano o lo spiritualismo progressista) costituisce un leitmotiv non trascurabile.

Leopardi Schopenhauer
Giuseppe De Nittis, Il salotto della principessa Matilde (1883)

«Qui mira e qui ti specchia / secol superbo e sciocco»

Leopardi
Georg Wilhelm Friedrich Hegel

Il motto giovenaliano «vitam impendere vero» introduce i Parerga e Paralipomena, raccolta in cui confluisce vasta parte degli scritti “minori” di Schopenhauer. Da essi traspare che quella verità per cui il filosofo è pronto a sacrificarsi non è necessariamente appannaggio di coloro i quali detengono l’egemonia dell’opinione comune.

La «filosofia delle università», forza centrifuga della Berlino del primo Ottocento, è per Schopenhauer motivo di profondo rancore; Schelling, Fichte ed in particolar modo Hegel, fondando il proprio pensiero su nulla più che una «teologia speculativa», si riducono al sofismo più vacuo («Volete istupidire un giovane, renderlo per sempre inetto a pensare? Mettetegli in mano un libro di Hegel», scrive scherzosamente De Sanctis esplicando il punto di vista del filosofo). Specifica pertanto Schopenhauer:

(…) Poiché la filosofia non è una Chiesa e neppure una religione. Essa è il piccolo luogo, a pochissimi accessibile, dove la verità, sempre e dappertutto odiata e perseguitata, una volta almeno deve essere libera da ogni oppressione e costrizione, e festeggiare per così dire i suoi Saturnali, in cui anche gli schiavi hanno libertà di parola, e in cui deve avere la prerogativa dell’ultima parola in tutte le questioni e signoreggiare da sola e non tollerare nessuno accanto a sé.

Il termine “paralipomena” (letteralmente “cose omesse, tralasciate”), d’altra parte, è altresì notabile nello stesso operato leopardiano: i Paralipomeni della Batracomiomachia, poemetto satirico in ottave, astraggono nel contesto topico della guerra tra topi e rane pseudo-omerica il fallimento dei moti liberali partenopei del biennio ’20-’21. È tra i celebri esempi della poetica del Leopardi della maturità, focalizzata sul rifiuto dell’ottimismo storico che dominava gli ambienti dell’inteligencia aristocratica (e che, inoltre, avrebbe pregiudicato l’operato leopardiano agli occhi della critica crociana).

La polemica dell’ultimo Leopardi non disvela tuttavia una radicale opposizione al progresso: dalla visione cupa di una Natura, intesa come ciclo meccanicistico di produzione e distruzione meramente fine alla conservazione del sistema, e conseguentemente indifferente alle sorti del singolo, si sopreleva invece un’idea di progresso che non omette la piccolezza dell’uomo, che invece «d’eternità s’arroga il vanto», rispetto al cosmo.

Progettualità esistenziale in Leopardi: «pietas» ne La ginestra

Leopardi
Ginestre sul fianco del Vesuvio

Canto del cigno del poeta di Recanati, La ginestra, oltre a raccogliere e sintetizzare i motivi leopardiani più immediatamente caratteristici, si pone come rivisitazione matura di quell’impegno civile che coinvolgeva l’autore fin dalle prime canzoni giovanili (reminiscenti tuttavia del pathos patriottico di tradizione petrarchesca).

Il proposito immediatamente intelligibile della canzone-testamento pare la restaurazione dell’autocoscienza negli uomini che «vollero piuttosto le tenebre che la luce» (citazione evangelica posta ad incipit del componimento), corrotti dalla superba idea di poter prevaricare sulla Natura. Ribadendo quanto detto sopra, ne La ginestra il nichilismo è prevalentemente propositivo, ed il disegno ivi espresso interessa la collettività. La conclusione della terza strofa, fulcro della politicità del canto, recita:

(…)

Così fatti pensieri
quando fien, come fûr, palesi al volgo;
e quell’orror che primo
contra l’empia natura
strinse i mortali in social catena,
fia ricondotto in parte
da verace saper; l’onesto e il retto
conversar cittadino,
e giustizia e pietade altra radice
avranno allor che non superbe fole,
ove fondata probità del volgo
così star suole in piede
quale star può quel c’ha in error la sede.

Giunti alla consapevolezza di essere accomunati dalla medesima condizione sofferente dovuta all’«empia natura», gli uomini possono adoperarsi per la fondazione di una società globale retta dalla «pietade», e non certo istituita sull’errore di fondo delle tesi ottimistiche.

L’eticità empatica del progetto leopardiano è similmente contemplata da Schopenhauer, il quale concepisce nella pietà, esperienza vissuta e non imperativo categorico kantiano né realizzazione razionale improvvisa, l’identificazione del singolo in tutte le realtà viventi. Mediante la giustizia (il non compiere il male) e la carità (il fare del bene), l’individuo abbatte i confini esistenziali che delimitano le altre forme di vita: «Tat tvan asi» («Quel vivente sei tu»), come afferma una formula contenuta nelle Upaniṣad.

La moralità pietistica, metafisica unificatrice di mondi in Schopenhauer, è nell’ottica di Leopardi movente pratico di aggregazione sociale di fronte al dolore cosmico.

Pierluigi Patavini

Bibliografia

  • Giacomo Leopardi: Canti, Zibaldone
  • Arthur Schopenhauer: Il mondo come volontà e rappresentazione, Parerga e Paralipomena
  • Francesco De Sanctis: Schopenhauer e Leopardi
  • Friedrich Nietzsche: Intorno a Leopardi