Black Panther: analisi del cinecomic Marvel

Isolazionismo o apertura e condivisione? Su questo dilemma si concentra Black Panther, ennesimo cinecomic sfornato dai Marvel Studios (è allo stato attuale il diciottesimo del Marvel Cinematic Universe, che in dieci anni di attività è diventato un universo narrativo condiviso talmente composito e solido che i più avranno ormai perso il conto).

Basato sul fumetto creato nel 1966 da Stan Lee e Jack Kirby, diretto e co-scritto da Ryan Coogler, che si è fatto conoscere dal grande pubblico grazie al suo ottimo Creed – Nato per combattere, spin-off della saga cinematografica di Rocky con protagonista l’attore ormai feticcio di Coogler, Michael B. Jordan, il quale interpretava Adonis Creed, il figlio di Apollo. All’interno della pellicola col marchio della Casa delle Idee, Jordan (che è praticamente riuscito a vincere la sfida personale con se stesso nel rilanciare la sua immagine e lasciarsi alle spalle il netto fallimento di un altro cinefumetto da lui interpretato, quel Fantastic 4 di Josh Trank in cui interpretava un Johnny Storm inutilmente stravolto dai suoi canoni tradizionali da Torcia Umana giocherellona e caciarona nel carattere e caucasica nell’etnia, maledetto politically correct) interpreta Killmonger, cattivissimo antagonista del film, che agisce con modi spicci e non si fa scrupolo alcuno nell’uccidere chiunque gli si pari davanti, persino i propri familiari, pur di ottenere ciò che vuole.

Quando è in scena lui, il film potrebbe sembrar assumere toni un tantino reazionari, ma Coogler è uno che sa il fatto suo, e riesce a trasmettere un gran bel messaggio soprattutto nella scena finale prima dei titoli di coda (a proposito: come sempre, quei geniacci della Marvel hanno inserito due scenette durante e dopo tutti gli end credits, che poi faranno da apripista per l’attesissimo Avengers Infinity War, che si preannuncia a dir poco spettacolare).

Coogler riesce a presentarci un cattivo che riesce finalmente a distaccarsi dal solito “filone” e dalla regola non scritta che affligge quasi tutte le pellicole targate Marvel Studios secondo la quale il villain principale per i film one-shot (in cui in pratica il cattivo è presente per un solo film riguardante quel personaggio e non lo rivedremo poi più avanti nel corso della macrostoria principale) deve essere non eccessivamente caratterizzato psicologicamente per non rubare la scena all’eroe di turno. Killmonger è, infatti, un villain molto solido e che riesce molto bene a farsi ricordare, con motivazioni più che condivisibili dallo spettatore. Ad interpretare il protagonista, il re wakandiano T’Challa, ritroviamo l’attore quarantaduenne Chadwick Boseman, che riprende il ruolo del figlio e legittimo erede al trono del defunto re T’Chaka, deceduto a seguito dell’attentato terroristico al Palazzo delle Nazioni Unite a Vienna qualche anno prima, e che abbiamo già imparato a conoscere in Captain America Civil War, di cui Black Panther è un sequel diretto.

Come new entry nel cast troviamo invece Letitia Wright, che interpreta il personaggio di Shuri, principessa del Wakanda e sorella di T’Challa, una brillante scienziata che ha dedicato la sua vita a studiare il vibranio, metallo indistruttibile fonte della ricchezza del Paese, la quale è per T’Challa ciò che il personaggio di Q è per James Bond nei romanzi di Ian Fleming, dato che gli fornisce tutti i gadget ipertecnologici che gli permettono di affrontare i suoi nemici. Shuri può essere definita addirittura anche più intelligente di Tony Stark.

Black Panther

Tecnicamente nulla da dire, dato che campi e controcampi durante i dialoghi principali dei personaggi sono gestiti alla perfezione, i lunghi piani sequenza durante le numerose scene d’azione sono impeccabili e i campi lunghi dei paesaggi wakandiani fanno letteralmente innamorare del luogo in cui è ambientato il film, tanto che si vorrebbe che il Wakanda, paese ipersviluppato ed ipertecnologico che però si nasconde in bella vista agli occhi del resto del mondo sotto la copertura del classico paese sottosviluppato del terzo mondo, fosse reale per una visita di piacere. La fotografia, poi, con toni principalmente caldi che però riesce nel modo più soft e meno traumatico possibile a passare a toni sul bluastro e il viola, fa il resto. Forse solo una CGI qualche volta volutamente cartoonesca in alcune sequenze potrebbe far storcere il naso a qualche perfezionista, ma nulla di particolarmente grave da far gridare allo scandalo, anzi. La sceneggiatura in Black Panther riesce a mantenere alto il ritmo e a non annoiare, e al solito non manca la perennemente presente comicità bambinesca Disney, stavolta però fortunatamente relegata a due o tre battutine trascurabili in tutto il film.

Nella pellicola vengono trattati temi come l’immigrazione, appunto la scelta da intraprendere per un paese tra l’isolarsi dal resto del mondo oppure condividere le proprie tecnologie e le proprie ricerche in campo medico e scientifico, la paura nei confronti del diverso, la conservazione delle proprie tradizioni e il mantenere vivo il ricordo delle proprie radici. Non male, per un cinecomic commerciale nella media ad alto budget come Black Panther. La risposta finale al quesito iniziale, comunque, secondo il film, è che “laddove le persone intelligenti costruiscono ponti, gli stupidi costruiscono barriere, e dobbiamo impegnarci, come fratelli e sorelle quali siamo tutti noi, ad unire le nostre forze ed a condividere le nostre tecnologie, per garantire la sopravvivenza del genere umano”.

Qualcosa che andrebbe ricordato a certi leader bigotti ed arroganti di certe nazioni, con politiche interne ed estere alquanto discutibili…

Antonio Destino