Eraclito in Nietzsche ed Heidegger: un fuoco che rischiari

Dicono che Euripide, dopo aver dato a Socrate lo scritto di Eraclito, gli abbia domandato: <<Che te ne pare?>>. Ed egli avrebbe risposto: <<Le cose che ho capito sono eccellenti, e credo che lo siano, d’altra parte, anche quelle che non ho capito, tranne il fatto che, per capirle a fondo, ci sarebbe bisogno di un palombaro di Delo>>.

Così una citazione della “Retorica” per voce di Aristotele, opera destinata, come tutti gli scritti sopravvissuti dello Stagirita, all’insegnamento tra le mura del Liceo. La citazione proviene da un frammento in forma aforistica di Eraclito, il filosofo che almeno una volta al giorno si ascolta citato per quella bizzarra tesi del “panta rhei” che vorrebbe per ogni istante un fiume differente.

Eraclito discende il fiume

Certo, il buon Aristotele si serve del presocratico per descrivere come allo stile letterario non siano consoni oscurità e impenetrabilità, ma la sua descrizione pare piuttosto utile all’analisi dello scandalo che in patria destarono quelle asserzioni misticheggianti.

Proveniva dalla città di Efeso, Eraclito, medesima sfera geografica che ha dato i natali a quei filosofi che l’Aristotele della “Metafisica” considera “naturalisti”, quali Talete, Anassimene e Anassimandro. Lungi dal donare alla realtà delle cose un’origine nitida e francamente olistica, il filosofo preferisce, nei frammenti sopravvissuti dell’opera “Sulla Natura”, operare per un flusso in costante divenire che lascia quantomeno più nebulose le direttrici da cui far ridiscendere la realtà.

“Quale realtà?”, sembra chiedersi Eraclito nei propri scritti. Scorrendo il frammento B91 dei Diels-Kranz, la scientifica raccolta di materiali presocratici, si legge: “Non si può discendere due volte nel medesimo fiume […] ma, a causa dell’impetuosità del mutamento, si disperse e di nuovo si raccoglie (anzi, non di nuovo né dopo, ma a un tempo si riunisce e si separa), viene e va.”

Così, il fiume diviene l’idolo privilegiato attraverso cui descrivere la mutevolezza delle cose reali. E se si discendesse in più inerte ruscello? L’acqua del ruscello pare ferma, immobile, l’individuo potrebbe entrarci dentro e semplicemente bagnarsi l’orlo dei pantaloni o le caviglie, i piedi: eppure il ruscello è a ogni istante differente, il divenire lascia che si inseguano l’essere e il non-essere.

Eraclito contro Aristotele

eraclito nietzscheQualcosa, insomma, è e non-è nella medesima realtà. Ma come? Quel principio definito “di non-contraddizione” di cui la “Metafisica” di Aristotele tanto si fregia, non sottolinea forse che “È impossibile che il medesimo attributo, nel medesimo tempo, appartenga e non appartenga al medesimo oggetto e sotto il medesimo riguardo”? Eppure la realtà, almeno secondo la prospettiva del frammento eracliteo, sembra sfuggire al buon gusto della logica.

Due, allora, i principi che tale prospettiva propone: l’ammissione della totale mobilità del reale; l’ascesa del non-essere al piano dell’essere. Se la scuola di Elea, attraverso il poema parmenideo da solito titolo “Sulla Natura” e i paradossi di Zenone, cercherà con ogni mezzo di negare l’esistenza ontologica del “non-essere” descrivendo le due “vie di ricerca che sole si possono pensare”, “l’una che <<è>> e non è possibile che non sia”, “l’altra che <<non è>>, e che è necessario che non sia.”, Eraclito completa l’integrità del reale attraverso la sua negazione.

Per una sola unità, lavora, allora, la filosofia eraclitea, quella dell’armonia “invisibile” degli opposti, tra loro in un conflitto, “padre di tutte le cose”, il quale per mezzo dell’attrito permette loro relazione e completamento.

L’esistenza animata: Eraclito in Nietzsche

eraclito heideggerAnimata, dunque, l’intera esistenza, da quel soffio che pare farsi emulo del fuoco. Così il frammento B90: “Tutte le cose sono uno scambio col fuoco, e il fuoco uno scambio con tutte le cose”: ancora “scambio”, mobilità. La fiamma della vita. Non pare dunque un fortuito caso se due tra i più importanti pensatori d’Occidente, Nietzsche ed Heidegger, ritagliano dentro la propria speculazione filosofica uno spazio per la filosofia d’Eraclito.

Già dall’opera giovanile del primo, “La filosofia all’epoca tragica dei Greci”, edita postuma (dallo stesso autore considerata “assai lontana dalla forma che si addice a un libro”), è la figura del filosofo di Efeso che prende possesso di quella di Schopenhauer divenendone una forma arcaica e più autentica. Egli è parte del trittico di filosofi “più puri”, insieme al melanconico Pitagora e al didattico Socrate.

Aristocratico e teso con tutto sé stesso alla verità, non può che illustrare, per Nietzsche, la parabola del filosofo il cui pathos per la ricerca è autenticamente lontano da una risoluzione: chi indaga sé stesso non può che ritrovare il più rapsodico caos. Trasparenti, allora, le relazioni che Nietzsche intesse tra il fuoco eracliteo e quello dionisiaco, una danza esistenziale che mai ascolta la nota conclusiva.

Il fuoco della fiaccola: Eraclito in Heidegger

Più fenomenologica, l’interpretazione che Heidegger propone del filosofo “sovraumano” (come lo descrive Giorgio Colli) nel ciclo di lezioni a lui dedicate e tenute insieme al collega Eugen Fink durante l’anno 1966/67. Non privo d’interesse l’assunto, esplicato a introduzione, di uno “sguardo spirituale” di cui Eraclito sarebbe stato messaggero. In tal modo, la filosofia eraclitea può ben relazionarsi con quella heideggeriana della verità quale alethes, vale a dire “disvelamento” del velo inautentico che sembra adornare gli enti.

È dunque quella del fuoco una chiara metafora della luce che sveglia i dormienti dal proprio sonno metafisico, della fiaccola che rischiara l’oscurità del cammino verso il sentiero della conoscenza. Mobili, sì: per camminare.

Antonio Iannone

Bibliografia

ARISTOTELE, Metafisica, a c. di G. Reale, Bompiani; IBIDEM, Retorica, a c. di F. Cannavò, Bompiani.
H. DIELS – W. KRANZ, I presocratici, a c. di Giovanni Reale et al., Bompiani.
M. HEIDEGGER – E. FINK, Eraclito, a c. di A. Ardovino, Laterza.
F. NIETZSCHE, La filosofia all’epoca tragica dei Greci, a c. di G. Colli, Adelphi.