Uccelli e poesia: Baudelaire, Leopardi e Caldarelli

Gli uccelli con il loro volo rappresentano un topos letterario molto diffuso; a stormi svolazzano nelle opere letterarie sin dagli autori antichi: già Virgilio, nel sesto libro dell’“Eneide”, facendo scendere Enea nell’Ade paragonò le ombre che si accalcano al fiume Acheronte ad uccelli che “si rifugiano sulla terra venendo dall’alto mare quando la fredda stagione li mette in fuga dai luoghi posti oltre il mare e li sospinge verso terre assolate”. Virgilio è anche con Dante Alighieri nel celebre canto V dell’Inferno, quello di Paolo e Francesca, in cui il sommo poeta, vedendo i due amanti avvicinarsi con una leggiadria insolita per il “luogo perduto”, li paragona a colombe che volano verso il loro nido.

“Quali colombe dal disio chiamate

con l’ali alzate e ferme al dolce nido

vegnon per l’aere, dal voler portate”

Già ci siamo occupati del ruolo che assume un avvoltoio in un racconto di Franz Kafka, simboleggiando un profondo ed oscuro senso di colpa. Vediamo ora alcuni autori che hanno usato il topos letterario degli uccelli per realizzare un confronto con se stessi o con l’individuo in genere, contestualizzato nella società in cui vive.

Il confronto tra il poeta e gli uccelli

Baudelaire: la ricerca di altre dimensioni

uccelliAttraverso i secoli, gli uccelli in letteratura assumono sempre nuove e svariate forme di allegoria e simbolismo per la condizione naturale o sociale dell’uomo.

Molto significativa nella poetica di Charles Baudelaire è una specie di uccelli: L’albatro, componimento inserito ne “I fiori del male”, descrive il maestoso uccello marino che sulla terra si muove goffo e impacciato perché impedito dalle grandi ali, mentre nel cielo diventa nobile ed elegante, capace di volare verso dimensioni sconosciute. Così il poeta: sulla terra è un essere soffocato dai limiti e dalla banalità del reale, ma quando libera la mente negli spazi infiniti diventa un “principe dei nembi”, e riesce a raggiungere mete inaccessibili agli altri uomini.

“Spesso, per divertirsi, uomini d’equipaggio
catturano degli albatri, vasti uccelli dei mari,
che seguono, compagni indolenti di viaggio,
il solco della nave sopra gli abissi amari.

Li hanno appena posati sopra i legni dei ponti,
ed ecco quei sovrani dell’azzurro, impacciati,
le bianche e grandi ali ora penosamente
come fossero remi strascinare affannati.

L’alato viaggiatore com’è maldestro e fiacco,
lui prima così bello com’è ridicolo ora!
C’è uno che gli afferra con una pipa il becco,
c’è un altro che mima lo storpio che non vola.

Al principe dei nembi il Poeta somiglia.
Abita la tempesta e dell’arciere ride,
esule sulla terra, in mezzo a ostili grida,
con l’ali da gigante nel cammino s’impiglia.”

La società borghese nei confronti del poeta si comporta come i marinai verso l’albatro: hanno catturato l’uccello marino per divertirsi a stuzzicarlo e prenderlo in giro. Il poeta, per cui è prigioniero della società da cui si sente estraneo ed esiliato ed è costretto a vivere male, visto che il volo con la fantasia gli viene impedito. Baudelaire esprime un forte desiderio di evasione nel paradiso della poesia, dove può diventare padrone del mondo, colui che ha capacità superiori di sentire e di penetrare nei misteri dell’universo.

Il contrasto tra il poeta e il mondo che non può capirlo, tra la piattezza quotidiana e le altezze toccate dalla poesia, danno all’artista la dolorosa e consapevole coscienza del proprio esilio terreno. Da questa sensazione di inutilità e di emarginazione nasce la noia del poeta, la tristezza, l’angoscia esistenziale, l’incapacità di stabilire un rapporto positivo col mondo, e nello stesso tempo la coscienza dell’alto valore della poesia.

Questo componimento è significativo poiché ripropone il contrasto, centrale in tutta la raccolta “I fiori del male”, tra l’alto e il basso, tra cielo e terra, ideale e noia. Il poeta si sente come esiliato in un mondo che non gli appartiene e che non sembra accettare la dimensione libera e spirituale della poesia; egli, tuttavia, sente questo suo essere diverso come segno di superiorità e nobiltà, che lo porta a disprezzare la mediocrità della vita normale.

Cardarelli e Leopardi: inquietudine e solitudine

uccelliAltri volatili che hanno spesso ispirato i poeti sono i gabbiani, probabilmente per la vicinanza al mare, altro topos letterario di grande rilievo. È il caso di Vincenzo Cardarelli che nella poesia “Gabbiani”, pubblicata per la prima volta nel 1932, esprime l’inquietudine tipica del primo Novecento, determinata dalla caduta delle certezze e dei riferimenti razionali ed esistenziali su cui era basato il mondo ottocentesco.

“Non so dove i gabbiani abbiano il nido,

ove trovino pace.

Io son come loro,

in perpetuo volo.

La vita la sfioro

com’essi l’acqua ad acciuffare il cibo.

E come forse anch’essi amo la quiete,

la gran quiete marina,

ma il mio destino è vivere

balenando in burrasca.”

Cardarelli pone in rilievo sia il paragone tra il poeta e i gabbiani, sia l’antitesi tra desiderio e realtà. Il poeta non è un solutore di enigmi, né una guida che possa indirizzare l’uomo su sentieri facili e sicuri; egli è piuttosto un esploratore dello spirito alla continua ricerca di qualcosa di indefinito, un incessante sperimentatore. Per il poeta autentico non vi è mai nulla di definitivo, nulla che possa essere considerato una meta conclusa e rassicurante; l’inquietudine e lo stato di perenne insoddisfazione sono pertanto l’abituale modo di essere del poeta.

Questa, la condizione sintetizzata da Cardarelli, a sua volta alla ricerca di una “pace” che sa bene di non poter mai trovare. L’inquietudine e l’incertezza del poeta sono fissate attraverso la semplice analogia tra il “perpetuo volo” dei gabbiani e la tensione del suo spirito. La “quiete marina”, ossia il raggiungimento di qualche forma di appagamento, sembra essere preclusa al poeta, perché il suo destino è quello di “balenare in burrasca”. Il tema dell’inquietudine è particolarmente sentito dagli intellettuali del primo Novecento.

Il vecchio mondo era tramontato, nuove forze sociali erano salite alla ribalta, le tensioni tra gli stati (di natura politica, economica e coloniale) avevano condotto al primo conflitto mondiale e, successivamente, al fascismo e al nazismo. In tale contesto, la posizione degli intellettuali era complessa; essi non riuscivano a dare risposte, ma si limitavano a manifestare un disagio, un senso di inquietudine che costituisce il tratto comune, oltre che di Cardarelli, di un’intera generazione.

L’espressione “balenando in burrasca” riesce ad esprimere lo stato d’animo del poeta anche attraverso una sensazione visiva. Tutta la lirica tende verso questa immagine finale in cui si concentra il profondo significato del testo: similmente ai gabbiani, che paiono volare senza fermarsi mai, il poeta si sente condannato a “una vita randagia e disperata”

Cardarelli fu grande ammiratore di Giacomo Leopardie spesso nelle sue liriche si avvertono echi e suggestioni di componimenti del poeta recanatese. Se leggiamo, ad esempio, i primi versi (1-18) de “Il passero solitario”, sembra di scorgere espressioni e motivi cui può essersi ispirato Cardarelli, anche se poi li ha liberamente rielaborati. In questa lirica Leopardi realizza un parallelismo tra la sua solitudine ed esclusione esistenziale e quella di un passero, che solitario canta in primavera.

“D’in su la vetta della torre antica,
passero solitario, alla campagna
cantando vai finché non more il giorno;
ed erra l’armonia per questa valle.
Primavera d’intorno
brilla nell’aria, e per li campi esulta,
sí ch’a mirarla intenerisce il core.
Odi greggi belar, muggire armenti;
gli altri augelli contenti, a gara insieme
per lo libero ciel fan mille giri,
pur festeggiando il lor tempo migliore:
tu pensoso in disparte il tutto miri;
non compagni, non voli,
non ti cal d’allegria, schivi gli spassi;
canti, e cosí trapassi
dell’anno e di tua vita il piú bel fiore.

Oimè, quanto somiglia
al tuo costume il mio![…]”

Si può notare l’alternanza di versi lunghi e brevi: endecasillabi e settenari in Leopardi, più liberi in Cardarelli; alcune espressioni come per lo libero ciel fan mille giri ricorda il perpetuo volo della lirica di Cardarelli. L’intera situazione richiama quella delineata da Cardarelli, ossia il confronto tra il poeta e gli uccelli. La situazione porta però a esiti diversi: mentre Leopardi accentua il problema della solitudine e della sofferenza contrapposta alla naturalezza del volatile, Cardarelli sottolinea il problema della precarietà, dell’instabilità dell’uomo, dell’impossibilità di trovare la quiete, un punto d’arrivo.

La letteratura d’ogni tempo è popolata dagli uccelli e questi sono solo alcuni degli autori che, suggestionati dai volatili, hanno realizzato paragoni e simbolismi per testimoniare la condizione umana sul piano esistenziale o all’interno della società. L’azione dell’artista e del poeta è assimilata a quella degli uccelli, animali che hanno dotato l’uomo di una nuova audacia, quella del volo: possibilità di vivere l’esistenza in una dimensione profondamente diversa da quella terrena.

Maurizio Marchese

Fonti:

Charles Baudelaire, I fiori del male, traduzione e cura di Antonio Prete, Feltrinelli, Stampa Nuovo Istituto d’Arti Grafiche-BG, 2010

Giacomo Leopardi, Canti, a cura di Ugo Dotti, Feltrinelli