To the lighthouse di Virginia Woolf: un’elegia in prosa

Con il libro To the lighthouse Virginia Woolf sovverte gli antiquati canoni della narrativa, inscrivendosi in una corrente di cambiamento pervasiva e ineluttabile.

Il Novecento: un secolo di profondi cambiamenti

Gli albori del XX secolo furono pieni di innovazioni e cambiamenti epocali che stravolsero per sempre la percezione della realtà da parte dell’essere umano. Virginia Woolf fu una grande lettrice e interprete di tali cambiamenti, con i suoi scritti fu capace di illuminare le zone d’ombra della psiche umana e guardarle da un’altra prospettiva.

Per la Woolf non c’erano dubbi, il cambiamento andava situato intorno al dicembre del 1910 (anche se questo non fu netto, bensì graduale e pervasivo). Approfondì le sue teorie nel saggio Mr. Bennett and Mrs. Brown del 1924, nel quale analizzò la crisi che aveva colpito “l’arte del romanzo” nel primo quarto del secolo. L’autrice scrive che mentre il mondo cambiava anche gli “attrezzi”, le convenzioni degli autori, si adattavano alla nuova realtà: quelli usati sino ad allora erano diventati inservibili, e il bisogno di innovazione e sconvolgimento era impellente.

«[…] cominciò lo sconquasso e il fracasso. Ecco perché tutto intorno a noi, in poesia, nei romanzi, nelle biografie, e perfino negli articoli di giornale e nei saggi, sentiamo il rumore di cose che si rompono, cadono, si fracassano e vanno distrutte».[1]

I generi, che in passato erano delle istituzioni, “orizzonti d’attesa” per i lettori e “modelli di scrittura” per gli autori[2], perdono ora qualunque autorità. Alla vigilia del XX secolo questo patto non poteva più funzionare, i lettori non potevano più essere degli orfani guidati dalla voce e dalla saggezza dell’autore, il narratore diventava inattendibile, la morale non permeava le opere ma, se c’era, si nascondeva con cautela tra le pieghe delle pagine senza mai essere diretta e univoca.

Il Novecento si è concluso con una iperbolica estensione dei confini della letteratura e si può certamente affermare che il sistema dei generi – che esiste ma che è assolutamente aperto – è tutt’altro che statico.

To the lighthouse: un nuovo che cosa?

to the lighthouse Virginia Woolf

Il libro To the lighthouse rientra perfettamente in questa crisi perché la stessa autrice, nella sua pagina di diario del 27 giugno 1925, si domanda a che genere potesse appartenere quest’opera tanto particolare e a lei tanto cara:

«Ho l’idea che dovrò inventare un nuovo nome per i miei libri, con cui sostituire ‘romanzo’. Un nuovo… di Virginia Woolf. Un nuovo che cosa? Elegia?»

È quindi l’elegia il genere deputato per Al faro, non troppo per la forma quanto per l’intenzione.

Trama e rimandi autobiografici in To the lighthouse

Il libro sarà un omaggio a tutte le cose più importanti per la scrittrice: la mamma, il papà, l’infanzia. L’influsso autobiografico è infatti chiaramente percepibile: nel 1882, anno di nascita della Woolf, il padre decise di comprare una casa al mare in Cornovaglia, Talland House, molto vicina all’isoletta del faro di Godrevy Island. Qui la scrittrice trascorrerà tutte le estati della sua infanzia, difatti il ricordo della casa sarà molto presente in tutti i suoi scritti, fino a porla al centro dell’attenzione in To the lighthouse.

In una simile località infatti la famiglia Ramsay, protagonista dell’opera, andrà in villeggiatura assieme ad alcuni amici. Durante questa vacanza due propositi fungeranno da perno del racconto: l’organizzazione di una gita alla vicina isola del faro e il completamento di un quadro da parte di Lily Briscoe. Nessuno dei due verrà però portato a compimento nella prima parte, l’azione si fermerà per riprendere solo nei capitoli conclusivi, ambientati dieci anni dopo gli avvenimenti narrati inizialmente.

Tutti i personaggi del racconto, chi più e chi meno, sono ispirati a figure della vita della Woolf: la signora Ramsay, ad esempio, è una sorta di trasfigurazione della madre di Virginia, venuta a mancare quando lei aveva soli tredici anni; c’è poi il signor Ramsay, ispirato al padre della scrittrice, e infine Lily, la pittrice che rimanda alla figura di Virginia Woolf stessa.

La stesura di To the lighthouse nasce da una profonda esigenza di liberazione e dal bisogno di riappacificamento con i fantasmi della propria fanciullezza, attraverso il procedimento catartico della scrittura

«Fino a quarant’anni e oltre fui ossessionata dalla presenza di mia madre. Poi un giorno pensai al faro: con grande, involontaria urgenza. […] Scrissi il libro molto rapidamente, e quando l’ebbi scritto, l’ossessione cessò».

Il faro: destinazione e polo di un’offerta

Il faro è il motore primordiale della scrittura: è da lì che parte l’autrice ed è lì che vorrà arrivare. Non è solo un moto a luogo che la Woolf mette in atto però, non è solo il vettore di uno spostamento, un possibile o impossibile approdo al Faro[3], il “to” del titolo originale è anche un dativo, il polo di un’offerta, di un dono: tutta l’opera sarà un’ode al faro ed è per questa ragione che la precedente traduzione –“Gita al faro”- è stata poi corretta dalla studiosa Nadia Fusini in semplicemente “Al faro”.

Tutta l’opera sarà una celebrazione dell’infanzia, della nostalgia e della memoria, per questo sin dall’inizio la Woolf sa che userà un tono elegiaco: To the lighthouse è un libro più simile a una lunga poesia che a un romanzo. Lo si nota specialmente nella parte di raccordo del libro, il secondo tempo del racconto, una sorta di terra di mezzo tra le due parti narrative denominata difatti “Il tempo passa”.

La Woolf qui utilizza la tecnica cinematografica della dissolvenza incrociata che nel cinema ha lo scopo di creare sezioni filmiche di raccordo, e cioè di passaggio in dissolvenza appunto, da un’inquadratura a un’altra. Il lettore ha così la chiara sensazione della forza devastatrice del tempo che, come un’alluvione, inghiottisce la casa e tutti i personaggi della storia. In parentesi quadre l’autrice racconta poi i drammi privati della famiglia Ramsay e, in sottofondo, affiora la potenza di un avvenimento epocale: la Prima Guerra Mondiale.

to the lighthouse Virginia Woolf

La sezione di raccordo dell’opera: “Il tempo passa”

È questo cuneo d’ombra del romanzo che merita la definizione di elegia, il genere per eccellenza dedicato alla perdita, perché sin dal suo incipit si percepisce il lutto: l’intera sezione è sospesa nel tempo, cristallizzata, c’è una magistrale descrizione dell’assenza, del vuoto, della fluidità del tempo che passa e spaventa e che ha divorato tutto ciò che c’era prima. Nella prima parte vengono intercalati dei versi che in qualche modo spezzano la narrazione mentre ne “Il tempo passa” la narrazione stessa diviene lirica: in ciò consiste lo sperimentalismo di Virginia Woolf, che si prefissa e riesce a creare una nuova forma per descrivere un reale la cui percezione è completamente cambiata, frammentata. Quello che interessa alla scrittrice è cogliere il pensiero umano in tutto il suo caleidoscopio di forme e colori, in cui il concetto di linearità e ordine è ormai irrimediabilmente perso.

La terza e ultima parte è un tentativo di ripresa della vita, le due azioni iniziate nella prima sezione vengono finalmente portate a conclusione: la gita al faro è compiuta e il quadro di Lily viene terminato. La pittrice avrà il compito di ristabilire l’ordine quando ormai il senso iniziale delle cose è completamente smarrito, attraverso l’arte cercherà di raggiungere nuovamente l’unità. Il suo ritratto della signora Ramsay sarà il centro lirico della narrazione perché verrà ultimato solo quando la donna sarà ormai defunta, ed è qui che la Woolf concentra tutto il senso della materia narrativa di Al faro: da un lato solo nell’assenza si può cogliere la verità segreta, l’essenza delle cose, dall’altro il passato irrecuperabile è trasfigurato dalla soggettività del ricordo.

La coscienza pluripersonale e le diverse prospettive in To the lighthouse

La distanza permette la messa in prospettiva, si può vedere quello che prima non si vedeva o che è addirittura assente, anzi, lo si può vedere perché assente, si può ricostruire con l’occhio della mente. Si può quindi dire che in Al faro la parola chiave è “prospettiva” e che l’indagine dell’io diventa lo strumento di analisi per eccellenza. L’intenzione principale della Woolf è

«Prendere un momento qualsiasi di una mente ordinaria in un giorno ordinario e riuscire a portare a galla quell’indecifrabile entità che noi tutti custodiamo: l’interiorità, e i suoi tumulti.»[4]

Spesso leggendo opere uniche come Al faro ci si chiede chi parli, a che livello si collochino le enunciazioni e chi le stia producendo ma tutto ciò in realtà non è importante: l’obiettivo che muove la scrittura di Virginia Woolf non è raccontare una storia, ma andare all’essenza delle cose. Ben lontani dalle razionali rappresentazioni del realismo, gli scritti della Woolf sono fatti di emozioni e di impressioni. Il suo lavoro è più simile a quello di un pittore che prova a rappresentare, non senza deformazioni, quel qualcosa di profondo e segreto che è dietro le cose della vita.[5] Non è un caso che Virginia scelga come suo alter ego nel libro proprio una pittrice: come Lily prova a rappresentare l’essenza profonda delle cose nella sua pittura, così l’autrice prova a dire quel qualcosa di indicibile con le parole e le frasi che si susseguono sul foglio.

Il compito del romanziere secondo Virginia Woolf

Per concludere sembra doveroso ricorrere nuovamente alle parole della grandiosa Virginia Woolf, tratte dal suo saggio Modern Fiction del 1925. Qui la Woolf esorta gli artisti a esprimersi nel modo che ritengono più consono, senza necessariamente seguire le convenzioni stabilite dalla società e senza dover riportare su carta ciò che la collettività vuol sentirsi dire, con il fine di essere il più sinceri possibile e di restare fedeli alle proprie verità interiori, senza ricorrere a filtri distorcenti e alteranti, come potrebbe essere la reclusione in un genere specifico e nelle sue regole:

«[…] se uno scrittore fosse un uomo libero e non uno schiavo, se potesse scrivere quello che vuole, e non quello che deve, se potesse fondare il suo lavoro su ciò che sente e non sulle convenzioni, non esisterebbe nessun intreccio, nessuna commedia, nessuna tragedia, nessuna storia d’amore o catastrofe nello stile comunemente accettato, e forse nemmeno un bottone cucito secondo i dettami dei sarti di Bond Street. La vita non è una serie di lampioncini disposti simmetricamente; la vita è un alone luminoso, un involucro semitrasparente che ci racchiude dall’alba della coscienza fino alla fine. Non è forse compito del romanziere esprimere questo spirito mutevole, misterioso e indefinito, per quanto possa mostrarsi complesso e aberrante, con una miscela il più possibile priva di elementi estranei ed esterni? Vogliamo suggerire che la materia del romanzo è un po’ diversa da quella che l’abitudine vorrebbe farci credere».

Daniela Diodato

Note

[1] V. Woolf, L. Rampello, Bennett e la signora Brown da Voltando pagina. Saggi 1904 -1941, Il saggiatore, 2011, p. 133.

[2] F. Pappalardo, Teorie dei generi letterari, cit., p. 12

[3] V. Woolf, Al faro, a cura di Nadia Fusini, introduzione, Feltrinelli, 2014.

[4] A. Marino, Momenti dell’essere: Al Faro di Virginia Woolf, dal blog “Il rifugio dell’ircocervo”, 2021.

[5] D. Riello, “Gita al faro” di Virginia Woolf, tra poesia e romanzo dal blog “Un lettore”, 2021.

BIBLIOGRAFIA

MARINO, Angela, Momenti dell’essere: Al Faro di Virginia Woolf, dal blog Il rifugio dell’ircocervo, 2021.

PAPPALARDO, Ferdinando, Teorie dei generi letterari, B. A. Graphis, 2009.

RIELLO, Donato, “Gita al faro” di Virginia Woolf, tra poesia e romanzo dal blog Un lettore, 2021.

WOOLF, Virginia, Bennett e la signora Brown tratto da Voltando pagina. Saggi 1904 -1941, a cura di Liliana Rampello, Il Saggiatore, 2011.

WOOLF, Virginia, Al faro, a cura di Nadia Fusini, introduzione, Feltrinelli, 2014.