L’Influenza spagnola: la pandemia più grande della storia

Mentre l’epidemia di coronavirus imperversa ormai non solo in Italia ma anche negli altri paesi d’Europa e del mondo, sono in pochi a guardare davvero dentro la storia del passato per capirne di più. Dopo più di un secolo, infatti, il ricordo della pandemia di influenza spagnola, che uccise milioni di persone e falcidiò intere generazioni, riaffiora limpido in chi ne ha memoria, scatenando paure ataviche in giorni così drammatici.

Decine di milioni di vittime nel mondo

L’influenza spagnola fu una pandemia influenzale così letale da essere considerata la più grave forma di pandemia della storia dell’umanità. Come una piaga biblica, l’influenza spagnola infatti uccise in tre ondate successive, fra il 1918 e il 1920, dai 50 ai 100 milioni di persone su una popolazione mondiale di circa 2 miliardi. Fu la prima delle due pandemie moderne provocate dal virus dell’influenza sierotipo H1N1 (tra queste ricordiamo l’influenza suina del 2009). Essa coincise inoltre con un evento altrettanto tragico: la fine del primo conflitto mondiale, quando i paesi belligeranti erano stremati e le organizzazioni sanitarie militari e civili versavano in condizioni disastrose.

Il tasso di di letalità della pandemia d’influenza spagnola non è noto, ma si stima che morì dal 10 al 20% di coloro che erano stati contagiati, a differenza del comune tasso associato all’influenza epidemica che si attesta sullo 0,1%. In virtù della sua letalità, si dice che questa influenza abbia ucciso più persone in 24 settimane che l’AIDS in 24 anni, e in un anno più di quante ne abbia uccise la peste nera in un secolo.

La malattia ridusse notevolmente l’aspettativa di vita dell’inizio del XX secolo che, nel primo anno dal diffondersi della pandemia, risultava diminuita di circa 12 anni. L’enorme numero di decessi fu dovuto ad un tasso d’infezione estremamente alto (che arrivava anche oltre il 50% della popolazione suscettibile) e all’estrema severità dei sintomi.

influenza spagnola

Influenza spagnola: un appellativo immeritato

L’influenza spagnola fu globale, estendendosi addirittura fino al Circolo Polare Artico e alle remote isole del Pacifico, in un’epoca in cui la denuncia dei casi non era ancora obbligatoria nemmeno nei Paesi più industrializzati.

La malattia fu chiamata spagnola perché fu la stampa spagnola, la prima a diffondere notizie sull’epidemia. La Spagna era all’epoca immune dalla censura militare, in quanto non coinvolta nel conflitto bellico. Pertanto, le notizie sanitarie rispetto all’epidemia nel paese iberico venivano fornite tempestivamente. Tale trasparenza nella diffusione delle informazioni costò alla Spagna, tra l’altro, il titolo immeritato di paese fonte del contagio.

D’altra parte, come spesso accade per le epidemie, si registrarono anche altre denominazioni: fu chiamata fièvre de Parme in Francia, febbre delle Fiandre in Inghilterra, malattia bolscevica in Polonia, soldato di Napoli in Spagna. Tutta questa confusione nella terminologia scaturiva dalla difficoltà diagnostica causata dalla aspecificità dei sintomi, comuni anche ad altre malattie.

I sintomi dell’influenza spagnola

La malattia, nella sua fase storica più aggressiva, esordiva come una comune influenza. I sintomi dell’influenza spagnola erano dunque tosse, dolori lombari e febbre. Ma quando il paziente entrava in ospedale, immediatamente peggiorava a causa di una polmonite acuta: si manifestava dispnea, il volto diventava cianotico e la morte sopraggiungeva per insufficienza respiratoria. Al tavolo autoptico i polmoni apparivano gonfi e bluastri, la superficie era umida e schiumosa e la loro consistenza molle. I sintomi del 1918 erano talmente inusuali, che inizialmente l’influenza fu diagnosticata erroneamente come dengue, colera o tifo.

La maggior parte dei decessi fu dovuto alla polmonite batterica, infezione secondaria opportunistica frequentemente associata all’influenza. Tuttavia, il virus uccise i malati anche direttamente, causando edemi ed essudati nei polmoni.

L’H1N1: un agente patogeno inusuale

Il responsabile era il virus a RNA orthomixovirus sierotipo H1N1, la cui trasmissione avveniva per via aerea, cioè con le goccioline di saliva prodotte soprattutto con tosse o starnuti.

Tale virus era in grado di suscitare un’abnorme reazione del sistema immunitario; quest’ultimo anziché proteggere l’organismo, partecipava al danno anatomico. Secondo alcuni ricercatori, il ceppo recuperato dai corpi di vittime congelate, e successivamente inoculato negli animali, colpiva in una maniera talmente repentina e violenta da scatenare una tempesta di citochine, molecole proteiche che inducono l’organismo a resistere alle infezioni. Questa reazione incontrollata inondava di fluidi i polmoni, costruendo la base per nuove infezioni e ostruendo le vie respiratorie.

Virus H1N1

Immagine al microscopio elettronico del virus H1N1, agente eziologico dell’influenza spagnola

Al contrario delle comuni epidemie influenzali, la pandemia del 1918 uccise prevalentemente giovani adulti, precedentemente sani. Secondo lo storico John M. Barry, i più vulnerabili di tutti furono le donne incinte, con un tasso di mortalità era compreso tra il 23% e il 71%. Delle donne incinte sopravvissute al parto, oltre un quarto perse il bambino.

Si è ritenuto che nei giovani adulti l’elevata mortalità fosse legata alle forti reazioni immunitarie. In altre parole la probabilità di sopravvivenza paradossalmente sarebbe stata più elevata in soggetti con sistema immunitario più debole, come bambini ed anziani.
D’altro canto ciò appare inusuale, poiché generalmente l’influenza risulta più grave per questi ultimi. Inoltre, la fascia anziana della popolazione era sopravvissuta a un simile ceppo d’influenza circolato negli anni ’30 del 1800, ed era forse protetta da una forma parziale di immunità. In aggiunta a questo, un altro aspetto insolito caratteristico della spagnola, fu che l’epidemia si diffuse nell’emisfero settentrionale durante l’estate e l’autunno, mentre invece l’influenza di solito si diffonde in inverno.

Contenimento del contagio

Quando nella primavera del 1918 i medici capirono difatti che quella che avevano davanti era un’epidemia d’influenza, sapevano che un “virus” era probabilmente il responsabile. Tuttavia, non sapevano esattamente cosa questo significasse, né perché l’epidemia che avevano di fronte fosse così letale rispetto al passato.
Nel tentativo di limitare il contagio, l’American Health Association dichiarò pericolosi tutti i raduni, specie se al chiuso, e consigliò di chiudere bar, cinema, sale da ballo, teatri, e di evitare i funerali pubblici; le chiese dovevano ridurre al minimo le funzioni, tram e metropolitane erano considerati a rischio; gli orari di lavoro dovevano essere differenziati per evitare gli affollamenti.
Era persino in vigore un divieto di tossire e starnutire in pubblico.

Quotidiano influenza spagnola
Un quotidiano statunitense dell’epoca riporta alcune delle misure drastiche adottate per il contenimento contagio

Nel Regno Unito i medici suggerirono misure di quarantena, ma furono spesso inascoltati. La psicosi dell’epidemia si diffuse rapidamente in tutto il paese, e le persone iniziarono a uscire di casa indossando pesanti mascherine sanitarie, mentre i produttori di whisky e scotch pubblicizzavano i loro prodotti come rimedi sicuri e infallibili.

Sulle prime pagine dei giornali l’influenza spagnola veniva rappresentata come uno scheletro vestito da ballerina di flamenco i cui artigli ghermivano l’Europa.

L’impotenza della medicina di fronte a una malattia sconosciuta

Dal momento che la causa dell’influenza non era nota, tutti i numerosi vaccini che vennero sperimentati non risultarono efficaci e, ugualmente, non erano disponibili terapie antivirali specifiche. Le cure prescritte risultarono inefficaci e la medicina si dimostrò impotente: molti medici morirono dopo il contagio, mentre coloro sopravvissuti assistevano spesso alla morte dei loro cari.

Le prime terapie utilizzavano il Fenazone per abbassare la temperatura, la tintura di Nux Vomica per stimolare il sistema nervoso ed estratti di Digitalis per sostenere il cuore. Un’ipotesi suggerisce che sia possibile attribuire molte morti da influenza all’Aspririna, in quanto all’epoca erano spesso raccomandati forti dosaggi, oltre 30 grammi al giorno (oggi la massima dose giornaliera è stimata intorno ai 4 grammi).

Un medico francese consigliava ai malati di bere molto vino rosso “sino a che il berretto appeso al pomello della porta non fosse apparso sdoppiato”. Gli opuscoli suggerivano di masticare il cibo con attenzione e di evitare di indossare vestiti e scarpe stretti. I rimedi casalinghi comprendevano gargarismi con il bicarbonato di sodio e l’acido borico, impacchi di sale nelle narici e mangiare cipolle a tutti i pasti. Furono tentate terapie con preparati a base di aglio e tinture di iodio, il chinino, preparati a base di piccole dosi di acido fenico, la canfora, preparati con olio di cinnamomo (cannella), il salvarsan (un antisifilitico), l’olio di ricino, il citrato di sodio, ma tutti risultarono infruttuosi. Ricomparve persino il salasso (già ripudiato dai medici sul finire dell’800) con risultati estremamente negativi.

Le cause dell’influenza spagnola

Essendo i dati storici ed epidemiologici inadeguati per identificare le reali cause e l’origine geografica della pandemia, ci si è serviti di studi più recenti basati principalmente su referti medici originali di quel periodo. Tali studi hanno così rilevato che l’infezione virale stessa non era più aggressiva di qualsiasi altra influenza precedente, ma che circostanze particolari (ad esempio malnutrizione, alloggi militari sovraffollati, scarsa igiene) e i massicci movimenti delle truppe impegnate sul fronte contribuirono ad alimentare la trasmissione e la mutazione del virus.

Secondo lo studio condotto nel 1999 dal virologo John Oxford, fu nell’ospedale militare di Étaples, a nord della Francia, che nel 1917 si manifestarono i primi segni della malattia, per poi esplodere nell’autunno dell’anno successivo. Quando infatti, nell’autunno 1918, arrivò la seconda ondata della pandemia, il virus era mutato in una forma molto più letale.

Questa maggiore letalità è stata attribuita alla situazione relativa al clima di guerra. Nella vita civile, la selezione naturale favorisce i ceppi di virus miti: quelli che si ammalano seriamente rimangono a casa, e coloro che sono solo lievemente malati continuano con le loro vite, diffondendo una malattia non grave.

Nelle trincee, invece, la selezione naturale risultava invertita: i soldati che avevano contratto una forma leggera rimasero dov’erano, mentre i malati gravi venivano inviati su treni affollati verso ospedali da campo altrettanto affollati, diffondendo il virus più letale. La seconda ondata iniziò così e l’influenza si diffuse rapidamente in tutto il mondo.

Ulteriori fattori che favorirono l’espandersi dell’epidemia furono l’aumento dei viaggi, così come l’apertura alle comunicazioni di vaste aree del mondo un tempo isolate: il continente africano ad esempio espose milioni di persone a un contagio che prima non avevano mai visto.

Termine della pandemia: la necessità di Sistemi Sanitari pubblici

Dopo la letale seconda ondata, il numero di nuovi casi cadde bruscamente, quasi ad annullarsi. Una terza ondata si verificò nel gennaio del 1919, ma fu più contenuta e in seguito il virus scomparve definitivamente. Tra le teorie maggiormente accreditate circa il rapido declino della malattia, vi è quella che il virus del 1918 abbia subito una mutazione rapida in una forma meno letale: un evento comune nei virus dell’influenza, poiché gli ospiti dei ceppi più pericolosi tendono ad estinguersi.

La pandemia dell’influenza spagnola contribuì a rafforzare l’idea della necessità di Sistemi Sanitari pubblici. In molti luoghi, ieri più di oggi, solo le persone più facoltose avevano accesso alle cure. Nacquero così molti programmi per la salute e l’Igiene pubblica e vi furono investimenti consistenti nella ricerca medica. La natura del morbo come virus non venne compresa fino a gli anni ’30.

Fabio Capone

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