Gli Asburgo di Spagna e la complicata gestione delle finanze

Gli Asburgo di Spagna regnarono a lungo su un vasto impero, ma sembra che per tutta la durata del loro governo (1516-1700) non abbiano saputo gestire le sue “infinite risorse”.

In realtà, durante il loro dominio -di cui in questo articolo analizzeremo i regni di Carlo V e Filippo IIsi scontrarono con il difficile contesto economico del paese, dovendo far fronte a numerose spese causate dai diversi impegni bellici.

Gli inasprimenti fiscali e i mezzi finanziari usati ebbero un impatto nocivo sull’economia iberica, immiserendo le diverse classe sociali. Di questa miseria diffusa i membri della famiglia reale erano a conoscenza.

Dunque, il contrasto tra la politica economica perseguita e la coscienza dei sovrani sulla povertà diffusa è il dato più contraddittorio del governo asburgico spagnolo.

Le lamentele di Filippo II e del Cobos: la consapevolezza della miseria diffusa

“Con quello che paga con le altre imposte ordinarie e straordinarie la gente comune, che deve pagare anche questi servicios, è ridotta a tale miseria estrema che sono molti a non avere di che coprirsi. E la miseria è così generale che si rivela ancora maggiore tra i dipendenti dei nobili che tra quelli di Vostra Maestà, perché non sono in grado di pagare i loro canoni, mancando del denaro occorrente; e così le prigioni sono stracolme.”

L’estratto della lettera, inviata da Filippo II d’Asburgo di Spagna al padre nel 1545, è molto chiaro. La sua attenzione si rivolge alla gente comune, ridotta alla fame e incapace di comprare i beni di prima necessità. Addirittura i dipendenti della nobiltà (ovvero i contadini affittuari) si ritrovano ad essere impossibilitati a pagare il fitto (i canoni) e quindi vanno in prigione.

La causa di questa miseria è data dal servicio, un tassa straordinaria votata dalle Cortes che colpiva i pecheros, ovvero gli strati sociali non privilegiati.

A questa lettera seguirono delle altre, stavolta inviate dai ministri della Corona. Anche essi lamentavano lo stato di miseria diffuso e invitavano il re ad un alleggerimento del carico fiscale. In questo coro di voci spiccava il Cobos, l’uomo di fiducia di Carlo V incaricato alla gestione delle finanze regie.

Per evitare il crack economico, egli suggeriva al re di tagliare le spese, così diminuendo la pressione fiscale in Castiglia. Ciò avrebbe imposto al campione asburgico la fine delle ostilità con la Francia. Ma questo suggerimento non fu accolto e Carlo V costrinse il Cobos a trovare diversi espedienti per ricuperare quante più risorse possibili.

Gli Asburgo di Spagna e la loro gestione del sistema fiscale castigliano

Gli espedienti finanziari adoperati dal Cobos, sfruttati successivamente anche da Filippo II d’Asburgo di Spagna durante il suo regno (1557-1598), permisero alla Corona di coprire il deficit. Essi si composero di mezzi fiscali e strumenti finanziari.

Per quanto riguarda il sistema fiscale esso presentava proprie particolarità. Le principali voci d’entrata del bilancio erano rappresentate dai contributi della Chiesa Spagnola, dalle rentas ordinarias e dai contributi straordinari concessi dalle Cortes. Sembra strano, ma la Chiesa partecipava alla tassazione, tramite la devoluzione di decime (tercias reales, subsidiocruzada) e rendite (provenienti dagli ordini militari) all’erario regio.

Invece le rentas ordinarias (dazi interni ed esterni, montazgo, alcabala) erano la vera e propria imposizione fiscale, che colpiva generalmente gli altri ceti sociali (nobiltà e terzo stato). Da non dimenticare sono le rimesse di metalli preziosi dal nuovo mondo, che seppur nell’immaginario collettivo rappresentino la ricchezza della Corona, contribuivano poco al bilancio complessivo (fruttavano solo 300.000 escudos l’anno).

Benché le voci d’entrata fossero tante, esse non riuscirono a coprire tutte le spese. È stato calcolato che al 1534 l’entrate regie si aggirassero intorno ai 400 mila ducati, a fronte di una spesa di un milione. Ciò spinse Carlo V d’Asburgo a chiedere altri sussidi alle Cortes.

E infatti durante gli anni ’20 e ’40 furono convocate a più riprese ed assunsero un forte potere di mediazione. Questo le permise di acquisire il diritto di veto su ogni aumento nelle ripartizioni dei tributi e la necessaria forza per trasformare alcune tasse.

Non a caso nel 1525 le Cortes sostituirono l’alcabala (imposta diretta sulle vendite) con l’encabezamiento (una somma fissa raccolta dalle città). In altri termini riuscirono a far scemare il peso dell’alcabala, trasformandola in un donativo raccolto da tutte le città rappresentate nelle Cortes.

L’introduzione del Servicio, la tassa aberrante denunciata da Filippo II d’Asburgo di Spagna

Per recuperare la perdita del gettito fiscale, alle Cortes di Toledo (1525) Carlo V d’Asburgo impose il varo di una nuova imposta, i servicios (in origine un donativo straordinario, diventato poi un’imposta regolare a cadenza triennale).

La differenza sostanziale tra alcabala e servicios sta nel fatto che la prima forma di tassazione pesava su tutti i ceti sociali, mentre la seconda colpiva solo i pecheros (i contribuenti del “terzo stato”, ovvero contadini, artigiani, salariati, mercanti, affaristi, liberi professionisti ecc.). Gli esenti godevano di privilegi ecclesiastici e nobiliari; in quest’ultimo caso sono da considerare sopratutto gli hidalgos.

La conseguenza di lungo termine derivata da questo nuovo tipo di tassazione fu il passaggio, più veloce che altrove, degli affaristi, dei banchieri e dei mercanti nelle fila dell’aristocrazia. Questo fu loro possibile grazie l’acquisto dei diritti dell’hidalguia, che permetteva l’esenzione dai servicios. Per questo motivo durante tutto il seicento in Spagna ci furono più nobili che mercanti, affaristi e banchieri!

Ma benché il servicio fruttava alla corona un’entrata di 400 mila ducati (pari dunque a tutte le entrate calcolate nel 1534), essa nel tempo si rivelò incapace di soddisfare le spese regie. Allo stesso tempo le Cortes castigliane si indurirono nei confronti dell’emanazione di nuove tasse. Un esempio può essere il caso delle Cortes del 1538, nelle quali Carlo volle introdurre una tassazione più equa, la sisa (un’imposta sulle derrate alimentari).

Il fallimento della sisa, oltre a dimostrare la vittoria dei privilegiati, spinse la corona a cercare altre fonti di guadagno.

“Fare debiti per coprire altri debiti”. Il Rischioso gioco d’azzardo degli Asburgo di Spagna

Asburgo di Spagna

Per coprire il deficit tra spesa ed entrate e per superare l’opposizione delle Cortes a nuove forme di tassazione, gli Asburgo di Spagna ricorsero alla contrazione dei debiti. Le due forme principali di questa nuova fonte di guadagno furono la contrazione classica del debito e l’emanzione degli juros (molto simili agli attuali titoli di stato).

La contrazione classica del debito non rappresentava la formazione di un debito pubblico. In realtà si può parlare di debito regio, ovvero un debito contratto direttamente dal Re con dei banchieri privati.

Tra il 1542 e il 1552 Carlo V d’Asburgo di Spagna riuscì a farsi prestare ben 39 milioni di ducati. La garanzia per ottenere queste somme era rappresentata dalle rimesse d’argento americano, dall’assegnazione degli juros [ndr. ovvero delle rendite che la Corona concedeva ai finanziatori privati del debito] e dall’anticipazione di parte dell’entrate fiscali ai banchieri (che erano non solo tedeschi e genovesi, ma anche castigliani).

Questo sistema permise agli Asburgo di di impegnarsi continuamente sui fronti europei, ma presentava anche molti svantaggi.

L’impatto nocivo dei debiti sull’economia interna

Innanzitutto, se tale sistema durava a lungo, poteva mettere la Corona nella condizione di non restituire il prestito. E infatti tale condizione si realizzò, poiché gli impegni bellici degli Asburgo di Spagna aumentarono nel corso del cinquecento e ciò non permise di diminuire il deficit (non a caso la corona andò in bancarotta più volte tra il 1557 e il 1596).

Allo stesso tempo, l’altro grande svantaggio affliggeva il sistema produttivo. Difatti mercanti e affaristi, attratti da una guadagno facile rappresentato dalla concessione degli juros e dal pagamento degli interessi sui debiti, spostavano capitali d’investimento dall’ambito produttivo all’ambito finanziario-debitorio.

Dunque, questa politica di fare debiti per coprire altri debiti, non fece che risucchiare le immense risorse di cui disponeva mirabilmente la Spagna. Ma allo stesso tempo indebolì ulteriormente un già fragile sistema produttivo, e ciò determinò la sua incapacità a competere con le produzioni olandesi, francesi e inglesi.

Le debolezze interne dell’economia castigliana:

Il sistema produttivo agrario andaluso

Se quelle viste sopra sono le politiche finanziarie e fiscali seguite dalla Corona, giunge il momento di analizzare il contesto su cui esse ebbero il loro impatto.

L’agricoltura castigliana, nei secoli precedenti trascurata a vantaggio dell’allevamento (monopolizzato dalla famosa Mesta), nella prima metà del cinquecento conobbe un periodo di forte sviluppo. Questa crescita economica era stimolata da un’aumentata domanda conseguenza dell’incremento demografico interno e della fondazione di nuove colonie nel nuovo mondo.

Questi due fattori implementarono la produzione di mercato dei latifondi castigliani (siti sopratutto in Andalusia), che si orientò all’esportazione di beni specializzati (olio e vino) a discapito della produzione cerealicola.

Le conseguenze della produzione agraria di mercato della Andalusia sulla Vecchia Castiglia

Le scelte operate dai produttori andalusi avvantaggiarono nel breve termine i piccoli proprietari terrieri della Vecchia Castiglia, che potevano trarre importanti guadagni dall’esportazione di cereali.

Ma il contesto in cui operavano era sfavorevole. Innanzitutto, l‘aridità dei terreni richiedeva l’investimento di capitali per creare canali di irrigazione e introdurre sistemi produttivi più razionali. A tali condizioni naturali, si aggiungeva la frammentarietà del sistema proprietario, che in un contesto agrario pre-industriale impedisce di raccogliere numerosi guadagni.

Quindi i piccoli proprietari terrieri si indebitarono per far fronte alle spese di gestione. Ciò li spinse ad innalzare il costo dei prodotti per coprire i debiti, dando così al mercato dei cereali poco competitivi, in quanto scarsi quantitativamente ed elevatamente costosi.

Ulteriore aggravante per il sistema agrario della Vecchia Castiglia fu il calo demografico della seconda metà del cinquecento. Infatti si registrò uno spostamento della popolazione da Nord a Sud, probabilmente conseguenza delle condizioni economiche della Vecchia Castiglia. Infatti i contadini lì presenti erano attratti dai fruttuosi guadagni della produzione andalusa, proiettata sui traffici atlantici.

Infine, un’altra causa dello spopolamento delle campagna è sicuramente l’elevata attrazione che la crescente manifattura urbana esercitava sui contadini poveri. La trasformazione da proprietari terrieri in artigiani, poteva alleviare gli oneri rappresentati dal possesso della terra. Dunque, la urbanizzazione della popolazione e gli spostamenti demici Nord-Sud possono essere considerati come sintomi di una trasformazione economico-strutturale in atto.

Gli influssi della crescita della domanda di mercato sul sistema manifatturiero castigliano

Per quanto riguarda la manifattura castigliana (che per la maggiore era costituita da opifici tessili), nonostante vivesse una forte crescita a causa dell’aumentata domanda di beni, poggiava la sua attività su fondamenta deboli.

Le basi precarie della manifattura tessile sono rappresentate da due problemi: la bassa qualità dei prodotti e l’insufficienza della manodopera. Benché le corporazioni controllassero rigidamente la fabbricazione dei tessuti, non disdegnarono l’assunzione di artigiani tecnicamente poco esperti. Ciò ebbe un impatto diretto sulla produzione, che qualitativamente si abbassò.

Invece l’insufficienza della manodopera si lega all’incapacità della manifattura tessile di rispondere alla forte domanda dei mercati. Infatti, per soddisfarla bisognava aumentare l’offerta, ovvero era necessario incrementare la produzione di panni castigliani assumendo nuovi operai.

Gli interventi asburgici per regolare il mercato del lavoro: le ordinanze del 1540

Per tale esigenza, nel 1540 furono ristabilite le ordinanze regie del 1387 (varate a seguito della grande peste), che obbligavano i vagabondi e i nullafacenti a lavorare (sopratutto di estrazione rurale, in quanto da poco giunti nell’area urbana).

A parte le conseguenze che creava l’immissione nelle manifatture tessili di manodopera non specializzata, tali provvedimenti riscossero l’opposizione della Chiesa, in quanto ledevano il diritto al vagabondaggio (o meglio la libertà del cristiano di chiedere l’elemosina). Quindi nel contesto spagnolo post-rinascimentale tali disposizioni regie rimasero lettera morta, facendo persistere la scarsità di manodopera.

Gli effetti di questa opposizione indebolirono la già fragile manifattura tessile. Addirittura alle cortes castigliane del 1548-1552 furono gli stessi operatori economici castigliani (mercanti, affaristi e banchieri) a lamentarsi dell’alto costo dei prodotti “nazionali”. Per calmare il dissenso dei mercanti, l’autorità regia vietò l’esportazione dei tessuti castigliani (ad eccezione del mercato Indiano, di cui il monopolio doveva rimanere castigliano).

Filippo II, al momento in cui ascese al trono (1557), abolì le disposizioni restrittive del 1548, cercando di rimettere l’industria castigliana in carreggiata. Ma questo atto non raggiunse lo scopo di far rinascere la manifattura castigliana, la quale declinò continuamente negli anni successivi.

Le opportunità mancate per il recupero economico. La Largueza degli anni ’70.

Asburgo di Spagna

Sebbene la Spagna presentasse molte debolezze interne, ci furono delle opportunità per superarle.

Filippo II ereditò diverse cose dal padre Carlo V d’Asburgo di Spagna. Innanzitutto l‘ammontare di numerosi debiti, che lo costrinse alla bancarotta del 1559. Inoltre, a questo “patrimonio” debitorio, si aggiungeva l’esistenza di un’economia sempre più provata dallo stress fiscale. Ma per evitare altre bancarotte Filippo mantenne in vita gli strumenti fiscali paterni.

Ciò afflisse ulteriormente l’economia interna, che per i propri limiti non riusciva a competere con la potenza anglo-olandese, sempre più emergente nel Nord Atlantico. C’era un forte bisogno di pausa, di sospensione dei conflitti per recuperare le proprie forze economiche. C’era bisgono di un periodo di largueza.

Infatti dal 1575 la musica cambiò. Grazie all’introduzione di una nuova miscela di raffinazione, le miniere argentifere del Potosì (sito nell’attuale Bolivia) incrementarono la loro produzione. Addirittura le rimesse d’argento garantirono alla Corona un gettito annuo di tre milioni di ducati.

Grazie a queste maggiori disponibilità Filippo II ebbe un più ampio margine di manovra e decise di agire. Riprese con forza la guerra contro i ribelli olandesi, schierando nei paesi bassi un’armata di 80 mila uomini. E contro l’Inghilterra di Elisabetta II mobilitò l’Armada Invecibile (che nel 1588 costava all’erario quasi 2 milioni di escudos).

Tale stress imperiale, cui espose la Spagna sul finire del cinquecento, ebbe delle conseguenze fatali, decretando forse l’inizio della futura decadenza spagnola. In conclusione, la largueza del 1575-1585 fu una vera occasione mancata per gli Asburgo, attraverso cui potevano far uscire la Spagna dal circolo vizioso dei debiti e del ristagno economico.

Niccolò Maria Ricci

Bibliografia

J. H. Elliott “La Spagna Imperiale. 1469-1714”, pp. 203-239 e pp. 307-312