Alva Noë: perché non siamo il nostro cervello

Che cos’è la coscienza? La mente e il cervello sono la stessa cosa? Alva Noë, filosofo e neuroscienziato contemporaneo, si pone queste domande, ma prima mette in discussione alcune teorie che intellettuali e studiosi moderni ormai definiscono certe sulla base di una percezione fallace. Egli ritiene che la coscienza non sia qualcosa di prestabilito e dato una volta per sempre. Si tratta piuttosto di un quid che si crea ogni volta dalla relazione che intercorre tra soggetto e mondo.

Alva Noë: il cervello non è un computer

Nel libro “Perché non siamo nel nostro cervello“, Alva Noë demolisce in primo luogo la consuetudine di paragonare il funzionamento del cervello a quello di un computer. Secondo tale comparazione, il primo si comporta come il secondo, in quanto come quello la sua principale attività è elaborare informazioni. In realtà, risolvere un problema e fare un calcolo sono attività che non implicano la comprensione dell’ostacolo e della situazione che si ha di fronte. Questo si spiega col fatto che il computer non è in grado di pensare. Anche considerando il funzionamento meccanico del cervello, secondo Alva Noë, bisogna ritenere che:

Alva Noë
Interfaccia Neurale

l’attività neurale non può semplicemente assurgere a livello della coscienza, neanche quando questa attività è descritta nei termini della teoria dell’informazione.

Ciò non impedisce a molti neuroscienziati di affermare che tutto ciò che percepiamo, mondo incluso, non sia altro che una grande illusione generata dal nostro cervello. Alva Noë cerca di dimostrare però che è proprio questa convinzione ad essere l’esito di una mera illusione.


La teoria della visione

In generale si concepisce la vista come il senso in cui ha la percezione assume un carattere più forte. Pertanto, l’idea è che se si dimostra che la visione del mondo dipende direttamente dall’attività cerebrale, allora si può mettere in dubbio l’esistenza di tutto ciò che vediamo. Come asserito da Keplero, l’immagine viene proiettata sulla retina in modo invertito. Eppure il cervello agisce affinché essa non risulti capovolta. Inoltre, anche se abbiamo pochi fotorecettori sensibili al colore, noi riusciamo a vedere infinite sfumature.

Questi sono solo alcuni dati che ci porterebbero, secondo la vecchia teoria della visione, a constatare che l’attività cerebrale sia in grado di eliminare lo scarto tra ciò che vediamo e ciò che esiste, arrivando a definire persino quel che rientra in quest’ultimo ambito.

La teoria suddetta si curava di mostrare, allora, come il cervello formasse internamente l’immagine del mondo. Alva Noë si sente, però, più vicino alla nuova versione della teoria, che si preoccupa perlopiù di capire perché ci sembra che il cervello svolga questo particolare compito. Non è possibile, infatti, lasciare ai margini, tanto per usare un eufemismo, il mondo esistente in sé e per sé.

Non siamo confinati in ciò che possiamo cogliere con un unico sguardo, a meno che non ci troviamo nell’ambulatorio di un oculista. La visione è attiva. […] La visione è una sorta di accoppiamento con l’ambiente che richiede attenzione, energie e, la maggior parte delle volte, movimento.

L’esistenza di tutto ciò che ci circonda non passa dall’immagine retinica, bensì dalle “modalità di accesso” che abbiamo sul mondo. Potremmo dedurre, già da queste prime osservazioni, che dall’esperienza del mondo deriva lo sviluppo di tutte le nostre facoltà (compresa quella del giudizio).

La coscienza non è nel cervello

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Il fine ultimo della sua esposizione è dimostrare che la coscienza non si realizza all’interno del nostro cervello. Quest’idea, che egli può sostenere dopo aver messo in discussione anche i premi nobel Wiesel ed Hubel, si collega direttamente alla concezione che la coscienza del soggetto non sia riducibile ad un processo computazionale. Anche le moderne tecniche utilizzate per rilevare l’attività cerebrale come PET o fMRI non riescono a cogliere ciò che contraddistingue ognuno nella sua singolarità: il modo in cui si recepisce o si giudica qualcosa. Alva Noë, al riguardo, scrive:

PET e l’fMRi producono immagini basate sulla rilevazione di grandezze fisiche (onde radio, onde luminose) che sono ritenuti essere affidabilmente correlate con l’attività metabolica del cervello.

Si tratta, cioè, in primo luogo di informazioni indirette, raccolte in una percentuale considerevolmente ridotta rispetto alla reale quantità di attività svolte ogni secondo in ambito neuronale/cognitivo. Anche nella prospettiva meramente biologica, l’uomo ma anche altri organismi, non possono essere concepiti solo dal punto di vista meccanico. Per dirla con Heidegger ogni soggetto esistente è prima di tutto gettato nel mondo. Allo stesso modo anche un semplice batterio necessita dell’ambiente circostante per vivere e svilupparsi.

Alva Noë: il modello della mente estesa

Il filosofo non intende sminuire in alcun modo i traguardi raggiunti dalle neuroscienze. Va tenuto presente, però, che la stessa plasticità neuronale è legata agli stimoli sensoriali che provengono dall’esterno. Le cellule della corteccia mutano il loro comportamento in base all’azione che si sta svolgendo in quel momento. Senza considerare che il soggetto per diventare individuo e maturare ha la necessità entrare il relazione con l’altro. Alla stregua di D. Chalmers ed A. Clark, fautori del modello della mente estesa, anche Alva Noë ritiene che tutti gli strumenti che utilizziamo per orientarci nel mondo o migliorare le nostre potenzialità (lingua, penna, calcolatrice, computer) appartengono alla nostra mente. Anche questo punto di vista avvalora l’idea che ogni soggetto “è presente” ben oltre i confini del suo cranio.

Siamo esseri distribuiti, dinamicamente estesi e coinvolti nel mondo. Non siamo, però, rappresentatori di mondo. […] Viviamo in mondi estesi in cui, grazie alle nostre abilità e alla nostra tecnologia, molto è presente virtualmente. […] Anche se non siamo in grado di vederlo dalla posizione in cui ci troviamo, la nostra esperienza di una casa comprende anche il retro.

Il linguaggio

Ciò che forse più di ogni altra cosa è in grado di mostrare che anche la mente supera di gran lunga i confini del cervello è il linguaggio. Nasce e si consolida in un ambiente condiviso ed è ciò che contribuisce a renderci ciò che siamo. Il pensiero e l’agire sono influenzati dal modo in cui comunichiamo e la lingua si costruisce in itinere mediante la relazione con gli altri.

In definitiva, tutte le motivazioni esposte (Noë nel saggio ne aggiunge molte altre) attestano che non ci sono prove per cui dovremmo ritenere che cervello e mente siano la stessa cosa o che dal cervello dipenda la nostra coscienza. Questo è un dato di fatto di cui la neuroscienza dovrebbe tener conto anche e soprattutto in vista degli sviluppi futuri.

Giuseppina Di Luna

Bibliografia

Alva Noë, Perché non siamo il nostro cervello, ed. Raffaello Cortina, Milano 2015.

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L’immagine di copertina è ripresa dal sito:
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