Le sottilissime astuzie di Bertoldo: l’opera di Giulio Cesare Croce

Il Seicento è un secolo complesso nel panorama italiano. Se da un lato le istanze della Controriforma pongono delle severe regole all’attività culturale, dall’altro il pensiero scientifico gode del contributo eccezionale di Galileo Galilei. Nel campo letterario Giambattista Marino apre al Barocco attraverso le teorie del Concettismo, influenzando la generazione successiva che vedrà dividersi in estimatori e detrattori del più emblematico poeta del secolo.
Tuttavia il ‘600 conosce anche un fortunato sperimentalismo letterario, nel campo della prosa, messo in opera soprattutto dal Basile e dal bolognese Giulio Cesare Croce e il suo Bertoldo.

Bertoldo, emblema del popolano astuto

L’opera che ci interessa è Le sottilissime astuzie di Bertoldo, narrazione che ha luogo nel regno longobardo del re Alboino, a cui Bertoldo fa visita. Una dichiarazione d’intenti è subito esposta dall’autore nel proemio, impiegando ironicamente una serie di negazioni:

Qui non ti narrerò, benigno lettore, il giudicio di Paris, non il ratto di Elena, non l’incendio di Troia, non il passaggio d’Enea in Italia, non i longhi errori di Ulisse, non le magiche operazioni di Circe, non la distruzzione di Cartagine, […] non i trionfi di Mario, non le laute mense di Lucullo, non i magni fatti di Scipione, non le vittorie di Cesare, non la fortuna di Ottaviano, poiché di simil fatti le istorie ne danno a chi legge piena contentezza; ma bene t’appresento innanzi un villano brutto e mostruoso sì, ma accorto e astuto.

Bertoldo è dunque un popolano, un villano, e di sicuro le sue qualità non sono quelle estetiche, ma dell’ingegno; viene descritto infatti in questi termini:

Prima, era costui picciolo di persona, il suo capo era grosso e tondo come un pallone, […] l’orecchie asinine, la bocca grande e alquanto storta, con il labro di sotto pendente a guisa di cavallo, […] con tre overo quattro gosci sotto la gola […]
Insomma costui era tutto il roverso di Narciso.

bertoldo
Ugo Tognazzi nei panni di Bertoldo (1984)

Bertoldo un bel giorno va in udienza dal re Alboino, e con un’ostentata sfrontatezza intraprende subito col sovrano una battaglia dialettica. Il Re per prima cosa chiede ragguagli sulla sua identità, in particolare quali siano “gli ascendenti e descendenti” suoi; Bertoldo, con giocosa semplicità, ribatte essere I fagiuoli, i quali bollendo al fuoco vanno ascendendo e descendendo su e giù per la pignatta.

Non pago delle argute risposte ottenuto dal villico, il Re lo fa portare via, tuttavia Bertoldo ritorna il giorno seguente, come le mosche […] che se bene sono cacciate via ritornano ancora“. Colpito allora dalla sagacia e dalla perseveranza del suo suddito, il Re lo prende come suo consigliere personale. Seguono per tutto il resto della narrazione le “sottili” astuzie con cui Bertoldo riesce effettivamente a trarre in salvo il Re da situazioni spinose. Si tratta di eventi inframmezzati da ridicoli cambi dialettici tra i due, in cui non fanno altro che fare a gare a chi conosce più proverbi e modi di dire.

Tuttavia non sarà facile la sua vita a corte. Alla fine il povero Bertoldo spira di una incontenibile voglia gastronomica non esaudita dal raffinato ambiente cortigiano, come si legge nell’epitaffio:

Mentr’egli visse e fu Bertoldo detto,
Fu grato al Re; morì con aspri duoli
Per non poter mangiar rape e fagiuoli.

Un’opera pienamente inserita nel suo tempo

Da queste citazioni è possibile stabilire quanto quest’opera sia in realtà il frutto di un secolo contraddittorio come quello decimosettimo.

Il distacco dai generi alti, dalla tradizione epica e osiamo anche dire la parodia della storiografia latina si avverte tutta nel proemio, assieme allo scetticismo verso l’eloquenza filosofica che costituisce il nocciolo dei rapidi scambi tra Alboino e Bertoldo, costruiti su frasi fatte e vuote.

Dopo il Cinquecento la storiografia latina della Repubblica, sotto l’egida di Tito Livio  aveva ceduto il passo alla rivalutazione dello storiografo per eccellenza dell’età imperiale, Tacito. I seicenteschi vi vedevano la pratica della dissimulazione storica per fini politici, ispirando trattati di storiografia come la Istoria del Concilio Tridentino di Paolo Sarpi.

Croce non parlerà dunque di Cesare o Ottaviano, e l’intento polemico verso una corrente di pensiero del suo tempo pare evidente.

Tuttavia, sotto altri aspetti l’opera presenta una piena adesione ad altre teorie sorte durante il secolo: già prima del Cannocchiale aristotelico di Tesauro, il discorso dello stile portava oramai sul nuovo concetto di argutezza, un’arguzia volta non più a dilettare, ma abertoldo stupire (Marino: “è del poeta il fin la meraviglia”), ed in tal caso nel nostro Bertoldo leggiamo, sempre nel proemio:

Quivi udirai astuzie, motti, sentenze, arguzie, proverbi e stratageme sottilissime e ingegnose da far trasecolare non che stupire.

Siamo di fronte quindi al dominio della parola, della rapidità di pensiero e dell’audacia di pensare fuori dagli schemi.

Infine, da un punto di vista descrittivo, le immagini evocate all’interno del testo testimoniano dell’eccesso del barocco, e del grottesco che si era insediato nell’immaginario nel periodo dell‘Inquisizione e della Controriforma. La descrizione di Bertoldo opera in un’unica continuità con le immagini volutamente esagerate e promiscue che le opere di Rabelais avevano diffuso in tutta Europa.

Daniele Laino

Bibliografia:
Manuale di italianistica, a cura di V. Roda, Bononia University Press, 2006, 346 pp.