La cerimonia del tè in Giappone e il Buddhismo Zen

Nel Giappone contemporaneo, dalle architetture futuristiche e dai ritmi di vita velocissimi, gruppi di amici coltivano ancora la passione per l’antichissima cerimonia del tè, il cha no yu.
In questo articolo tenteremo una comprensione di alcune sfumature dello Zen attraverso l’analisi dell’esperienza estetica della cerimonia del tè.

La cerimonia del tè e lo Zen

In Giappone il tè ha un significato molto differente da quello che gli attribuiremmo in Italia, dove il tè è una bevanda estranea e consumata per lo più come rimedio per la salute.

Il rapporto col tè in Giappone si è strutturato nel corso di più di un millennio. Le prime coltivazioni nel paese sorsero tra i secoli VI e VIII presso i templi buddhisti, poiché i monaci lo bevevano per restare svegli durante le lunghe meditazioni. Il primo libro sulla bevanda venne scritto nel 1211 del maestro zen Eisai.

Il legame originario tra tè e buddhismo zen ha lasciato una profonda impronta sullo spirito della cerimonia del tè. Fu nei monasteri che si creò l’abitudine di un momento cerimoniale incentrato sul consumare la bevanda insieme.

Progressivamente la cerimonia si aprì anche ai laici e si arricchì di elementi estetici. Proprio questa esperienza dei sensi era intesa dai maestri zen come capace di cogliere il nocciolo del loro pensiero. Fu così che perfezionare l’arte di preparare il tè si trasformò in una Via verso il satori, la comprensione totale dello zen.

L’estetica della cerimonia del tè

I maestri zen sembrano essere riusciti ad eternare le qualità che vedevano nella cerimonia del tè, poiché ancora oggi il cha no yu si svolge secondo la tradizione. Un maestro o un discepolo guidano la comitiva di amici in una stanza dall’aspetto essenziale, con pochi oggetti scelti in maniera da rispettare due canoni estetici fondamentali: Wabi Sabi.

Wabi è la condizione mentale in cui si è capaci di apprezzare gli oggetti per quello che sono. I gesti della preparazione, la stanza (chashitsu), la tazza da tè (chawan), il cucchiaino di bambù (chashaku), il frullino (chasen) con cui si mescola il tè in polvere (maccha): tutti possiedono una semplicità capace di ispirare il wabi in chi partecipa alla cerimonia del tè.

cerimonia del tè
Gli oggetti tradizionali utilizzati nel cha no yu.

Le imperfezioni degli oggetti, la loro artigianalità, ispirano invece nella mente la disposizione d’animo sabi così come la descrive Massimo Raveri:

« […] il maestro sceglie spesso la tazza di ceramica che tende avere forme imperfette; la ama perché è sempre imprevedibile nelle sue venature, che sono il motivo del suo fascino, ma sono anche la traccia del tempo […] Nel portarla alle labbra, ammirandone la bellezza, già la vede lontana, passata, e lui stesso con essa, lontano anche lui e passato, e il suo sguardo si vela, già ora, di una patina di indicibile nostalgia».

L’indicibile nostalgia del tè

Nella disposizione d’animo sabi, gli oggetti sembrano parlare al maestro dal profondo del passato e dalla lontananza del futuro, inducendogli quella «indicibile nostalgia» di cui parla Raveri. Per avvicinarci alla comprensione di questa rarefatta esperienza estetica, può essere d’aiuto Walter Benjamin:

«Se si definiscono le rappresentazioni radicate nella mémoire involontaire, e che tendono a raccogliersi attorno ad un oggetto sensibile, come l’aura di quell’oggetto, l’aura attorno ad un oggetto sensibile corrisponde esattamente all’esperienza che si deposita come esercizio in un oggetto d’uso».

Intorno agli oggetti del cha no yu, attraverso l’esercizio, si raccolgono nel praticante rappresentazioni che riemergono ad ogni nuova cerimonia del tè. Così chi prepara il tè fa quell’esperienza che Benjamin definisce auratica. Daisetz Suzuki può chiarircela dal punto di vista zen definendo l’aura come:

«[…] l’atmosfera che avvolge il rituale e infine la sua fase più importante: la disposizione mentale o spirituale che emerge misteriosamente dalla combinazione di tutti questi fattori».

In questa «atmosfera» che emerge il senso dello zen, uno «spirito di povertà, scevro da ogni forma di dicotomia: soggetto e oggetto, bene e male […]».

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Un dipinto realizzato con la tecnica zen del sumi-e (pittura che si esegue senza ritocchi).

Questa forma di percezione della realtà ricorda singolarmente ciò che Paul Valéry scrive intorno al sogno. Benjamin usa proprio le sue parole per definire esattamente l’esperienza dell’aura:

«Quando dico: vedo questa cosa, non pongo un’equazione fra me stesso e la cosa… Nel sogno, invece, sussiste un’equazione».

La cerimonia del tè come meditazione.

Il senso dello zen appare attraverso la cerimonia del tè più come una maniera di sentire la realtà che come un concetto. Lo zen si presenta come una pratica più che come una filosofia, ed il suo fine non è rivelare la realtà. È abbattere la separazione tra essa e l’uomo, rendendo il reale perfettamente percepibile.

Queste considerazioni possono chiarire quell’aspetto difficile da afferrare del pensiero orientale. E possono servire a correggere l’idea di meditazione come esercizio salutare. Questa è un’eredità che ci lascia la separazione di lavoro fisico e intellettuale tipica dell’Occidente.

La meditazione che si pratica nella cerimonia del tè è sempre intesa a connettere i partecipanti tra loro e con la realtà. Non è mai una pratica solitaria, neppure quando il maestro è da solo nella sua sukuya. C’è sempre la realtà a venirgli incontro.

 

Giovanni Marco Ferone

 

Bibliografia:

Massimo Raveri, Il pensiero giapponese classico, Piccola Bibliotecea Einaudi, Torino, 2014.

Daisetz T. Suzuki, Lo Zen e la cultura giapponese, Adelphi, Milano, 2014.

Walter Benjamin, Alcuni motivi in Baudelaire in Angelus Novus, Einaudi, Torino, 2014.