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Un’altra donna di Woody Allen, il film bergmaniano

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Prima di analizzare Un’altra donna (1987), il film più bergmaniano della filmografia di Woody Allen, è giusto chiarire la natura del sentimento di ammirazione e di influenza che il regista statunitense nutre nei confronti di Ingmar Bergman.

Nel 1953 Woody Allen scopre il cinema di Bergman con Monica e il desiderio (il film a partire dal quale proprio Bergman comincia ad avere maturità stilistica, grazie anche al rapporto con il direttore della fotografia Sven Nikvist).

Da quel momento Allen comincia a ispirarsi a Bergman sia dichiaratamente (lavorerà con Sven Nikvist e con Max von Sydow) che in modo molto e meno superficiale: nonostante utilizzino l’immagine cinematografica in modo molto diverso[1] «rimane il fatto che Allen elabora temi bergmaniani: l’autoesame del Posto delle fragole ispira Stardust Memories e Harry a pezz; Settembre riprende il tema della rivalità tra madre e figlia di Sinfonia d’autunno; Mariti e mogli estende a tutto il film l’intervista di apertura di Scene da un matrimonio»[2].

Ciò che, però, sottolinea lo stretto legame poetico instaurato da una determinata parte della filmografia di Woody Allen e il cinema di Ingmar Bergman, è l’idea fissa della morte, l’ossessione di Dio e del suo insopportabile silenzio e il perché siamo al mondo. Queste tematiche sono presenti in tutti i film di Woody Allen non solo perché è un evidente estimatore del regista svedese, ma proprio perché le problematiche sollevate da Bergman sono diventate proprie anche di Allen.

Un’altra donna, il film bergmaniano

Trama in sintesi: Marion (Gena Rowlands), docente di filosofia, ha appena compiuto cinquant’anni. Dalla griglia di aerazione dell’appartamento-studio dove trascorre le giornate a scrivere il suo nuovo libro, ascolta le sedute psicoanalitiche di Hope (Mia Farrow), una donna in attesa di un bambino.

Sin dal titolo è chiara l’intenzione di un’autoanalisi della protagonista: essa si serve di un alter ego (Hope), di cui ascolta acusmaticamente le confessioni (che sembrano, in realtà, riportare nel dettaglio i ricordi della protagonista) per analizzare e riordinare dei tasselli della propria vita.

Ed è proprio la parte sonora del film a essere caratterizzante e significante.

Ciò che bisogna tenere in considerazione è che Woody Allen è un regista musicale in quanto dal punto di vista del ritmo e dell’atmosfera pensa i suoi film come delle melodie. Questo è evidente sia in Manhattan, con l’accostamento tra bianco e nero cinematografico e Rapsodia in Blu di George Gershwin, sia in Un’altra donna, dove il volto della protagonista si accompagna a Gymnopédie di Erik Satie.

E non solo: nella prima scena di Un’altra donna, Woody Allen sceglie di organizzare gli spazi (visivi e emotivi) secondo il ticchettio di un orologio. I luoghi del film, di fatto, diversamente da come ha fatto in parte della filmografia precedente[3] e da come sceglierà di fare in futuro, sono sì importanti e circoscritti ma astratti: sono i luoghi dell’anima, i pensieri e i ricordi sono delimitati da stanze, da corridoi, da pagine che non hanno un’identità propria ma vivono in funzione del ricordo.

Un’altra donna è dichiaratamente ispirato a Il posto delle fragole, il film della malinconia e del rimpianto di Ingmar Berman, e Marion risulta essere la versione femminile (tratteggiata in modo meravigliosamente sensibile) di Isak Borg. I viaggi della memoria e dell’immaginazione di Marion prendono corpo da una pagina: la poesia preferita della madre, Antico Torso di Apollo di Rainer Maria Rilke, si conclude con un imperativo che spiazza la protagonista.

«Devi cambiare la tua vita».

C’è, finalmente, la necessità di una metamorfosi, di attuare una riforma delle priorità della protagonista. Marion, una donna che sino a quel momento ha cercato di reprimere e nascondere qualsiasi forma di sentimento («i sentimenti mi imbarazzano»), ne rimane soggiogata e l’orrore di aver vissuto sino ad allora con una maschera (bianca e inespressiva proprio come quella che indossa per gioco nella scena con il suo professore\amante) diviene incontenibile.

Ed è ancora l’arte, in un’altra scena, a dettare il codice morale e etico con una straordinaria evidenza: La speranza (il quadro di Gustav Klimt) commuove Hope creando un brillante gioco dialettico e espressivo nel quale la speranza risiede nel rimpianto di Marion di aver abortito.

L’autoanalisi della protagonista si chiude nuovamente con una pagina (la parola scritta che pare esser capace di raccogliere e di riassumere le sfumature dell’anima): quella che le dedica Larry, forse l’unico ad aver compreso la sensibilità di Marion, nella quale scrive di ritenerla capace di «una profonda e inarrestabile passione».

 

Cira Pinto

Bibliografia:

[1] «il primo piano, pietra miliare dell’arte bergmaniana, è quasi assente nei film di Allen, maniaco del piano sequenza. Bergman disdegna la musica se non è giustificata all’azione, Allen ne fa un’autentica struttura narrativa», cit in Eric Lax, Woody Allen, Milano, 1991, p. 202.

[2] Ibid.

[3] In Manhattan (1979), ad esempio, il protagonista vive un rapporto simbiotico con la divisione newyorkese: “New York era la sua città, e lo sarebbe sempre stata”.

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Cira Pinto

Cira Pinto, nata a Torre del Greco l'8 dicembre del 1990. Cresciuta tra le videocassette Disney e le ginestre che tanto hanno ispirato Leopardi, decide il suo futuro accademico guardando ''Biancaneve e i sette nani''. Laureata al corso di laurea magistrale in Filosofia presso l'Università di Napoli Federico II con una tesi in Filosofia Morale dal titolo ''Il cinema come arte del tempo. l'analisi deleuziana, tra classicità e modernità''. Ha frequentato il corso di Analisi e critica cinematografica e quello di Sceneggiatura alla scuola di cinema, televisione e fotografia Pigrecoemme. Collabora con LaCOOLtura da gennaio 2015.

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