Ingmar Bergman e la sua indagine sulla natura umana

Tutto comincia il 14 luglio del 1918 a Uppsala, con la nascita di Ingmar Bergman sotto i più cattivi auspici: la madre contrae l’influenza spagnola e lui stesso è di costituzione debole.

Circondato da una famiglia luterana inflessibile con un padre autoritario e brutale:

«Non potevamo fischiare, non potevamo camminare con le mani in tasca. Improvvisamente decideva di provarci una lezione e chi s’impappinava veniva punito. Soffriva molto per il suo udito eccessivamente sensibile, i rumori forti lo esasperavano»[1]

ingmar bergman
Il padre di Ingmar Bergman, Erik (1886-1970), pastore luterano, mentre tiene un sermone nella chiesa Hedvig Eleonora a Stoccolma nel 1930.

e una madre anaffettiva:

«aveva un eccessivo carico di lavoro, era tesissima, non riusciva a dormire, faceva uso di forti sedativi, che avevano effetti collaterali quali l’irrequietezza e l’ansia.»2

Completa il quadro un’educazione intransigente, una propensione al sacrificio, all’umiliazione e al rifiuto della gioia.

Come ovvio che sia, il giovane Ingmar non ci mette molto a erigere una barriera: si rifugia nell’immaginario, nell’arte “salvifica” della menzogna e la cancellazione del limite tra finzione e realtà. Un modello di sopravvivenza.

Al di fuori della cerchia familiare si rivela un narratore di storie, un seduttore che ama conquistare il pubblico.

Seguono le regie di un piccolo teatro di burattini, nonché la scoperta (una rivelazione) del primo proiettore cinematografico.[3]

Nel 1936 decide di andare a Stoccolma per vivere da solo, frequenta all’università di Stoccolma un corso di storia della letteratura che abbandonerà per entrare in contatto con il mondo del teatro e del cinema.

Nel 1940 diventa aiuto regista presso il Teatro reale dell’opera e con l’aiuto di una ragazza del corpo di ballo riuscirà a mantenersi finanziariamente fin quando non ottiene l’incarico di suggeritore per l’Orfeo all’inferno, con un compenso di tredici corone a sera.

In questa successione di avvenimenti, Ingmar Bergman incontra il cinema nel 1942; ha 24 anni e una reputazione già lusinghiera nel campo del teatro ed è proprio in occasione della rappresentazione di La morte di Punch che incontra Stina Bergman, responsabile del dipartimento degli adattamenti della Svensk Filmindustri, che decide di farlo entrare nella squadra degli sceneggiatori con uno stipendio di cinquecento corone al mese.

Non si possono evocare gli esordi dell’aspirante cineasta senza capire, accanto all’esperienza personale, l’importanza del contesto, che incise profondamente su quello che Bergman era allora e su quello che diventerà.

Ingmar Bergman innanzitutto è figlio della cultura nordica: oltre al già menzionato rigore luterano, vi è una natura segnata da forti contrasti delle stagioni (la grigia malinconia dell’inverno, la travolgente euforia dell’estate) e un sistema di organizzazione sociale e politica che, sotto una dichiarata apertura, cela una soglia di tolleranza relativamente bassa.

Il lacerante senso di colpa che tortura l’anima e il corpo dei personaggi del regista, così come l’imprescindibile gioco di luci e ombre nei suoi film, testimoniano quanto sarebbe assurdo negare questi strappi, che peraltro si rivelano cruciali per grandi pensatori e artisti scandinavi: dal filosofo danese Søren Kierkegaard al compatriota Carl Theodor Dreyer, al pittore norvegese Edvard Munch.

Ingmar Bergman, un genio polimorfo

È il 1945 quando dirige il suo primo film, Kris (Crisi), mettendo in scena la storia di una ragazza che, dopo diverse vicissitudini, ritrova la propria madre. Il film può essere considerato il primo capitolo di un’iniziale serie di opere dedicate al mondo delle inquietudini esistenziali dei giovani.

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Progressivamente i soggetti dei film di Ingmar Bergman abbandonano le iniziali specificità generazionali, comincia a guardare all’uomo e alla sua anima, cogliendone la dimensione esistenziale nei rapporti con sé e gli altri, con particolare attenzione al tema delle inquietudini religiose e del rapporto con Dio, visto spesso come un’entità assente che non è in grado di rispondere al richiamo dell’uomo.

Nella prima metà degli anni Cinquanta realizza un buon numero di film in cui i ritratti femminili prendono il sopravvento su quelli maschili, i drammi si alternano alle commedie, i sentimenti dei protagonisti diventano il pretesto per un’accurata indagine sulla natura umana. Nel 1956 e nel 1957 dirige due dei suoi capolavori: Il settimo sigillo (Det sjunde inseglet) e Il posto delle fragole (Smultronstället).

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Il posto delle fragole è interpretato da Victor Sjöström e racconta la storia di un uomo anziano che, sapendosi vicino alla fine, ripercorre in un lungo viaggio (sia fisico che interiore) i luoghi della propria vita. È un’accurata meditazione sul senso dell’esistenza umana, attraversata da sogni, incubi e ricordi, dove realismo ed espressionismo si incrociano ripetutamente.

Grazie a queste due opere Ingmar Bergman diventa una delle figure più apprezzate nel panorama del cinema d’autore internazionale, posizione che rafforzerà coi suoi film successivi, in cui tenderà ad una maggiore stilizzazione e a concentrare le sue storie in pochi ambienti e personaggi, caricando le proprie immagini di significati ulteriori attraverso un accorto lavoro sulle parole e i silenzi, i volti e gli sguardi.

I temi che di volta in volta Ingmar Bergman affronta nei suoi film diventano sempre e innanzitutto l’occasione per una sofferta e complessa meditazione sul senso della vita e della natura umana.

Come in uno specchio (Sasom i en spegel – 1961), Luci d’inverno (Nattvardsgästerna – 1962) e Il silenzio (Tystnaden – 1963) costituiscono una sorta di trilogia religiosa. Il primo mette in scena i temi dell’ipocrisia e della falsità, dell’incomprensione e del mal di vivere attraverso la storia di quattro personaggi in una vacanza su un’isola del Baltico; il secondo narra la storia di un pastore di anime in crisi, incapace di comprendere Dio, sé e gli altri, alla ricerca di un senso da dare all’esistenza umana; il terzo immagina il viaggio di due sorelle in un paese straniero che diventa il riflesso della loro solitudine e repressione degli istinti, è un mondo in cui la realtà risulta enigmatica e Dio sempre più invisibile.

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Persona (id. – 1966) è tra i film di Bergman più radicali, si concentra su due donne, un’attrice afasica e la sua infermiera, che si specchiano l’una nell’altra fino a confondersi. È un’evidente metafora dei temi del doppio e della crisi d’identità.

Negli anni Settanta Ingmar Bergman cerca di dare ai suoi temi centrali una forma nuova, con, ad esempio, la narrazione per blocchi isolati e l’uso del colore in Sussurri e grida (Viskningar och rop – 1973) e i modi del film inchiesta in Scene da un matrimonio (Scener ur äktenskap – 1974).

Nel suo ultimo grande film, Fanny e Alexander (Fanny och Alexander – 1983), ripercorre le vicissitudini di una grande famiglia agli inizi del secolo in una storia di cupi conflitti dove la realtà convive fianco a fianco con il mondo dei sogni e della fantasia.

https://www.youtube.com/watch?v=WXtjURjqTT8

«Che io non perda la mia gioia»

Ingmar Bergman è stato un uomo e un artista letteralmente torturato dalla sua infanzia. Più che il personaggio di Bergman bambino, sono i caratteri di quella infanzia a determinare il suo cinema: l’immaturità, la solitudine, la paura, il sogno, la pulsione, il fantasma. In quest’ottica, tutta l’opera di Bergman può essere compresa come un desiderio di esorcizzare la sua infanzia, aspirazione che lo porta, per vie lunghe e tortuose, a salvarla.

Un viaggio che comincia da un bambino assassinato dall’adulto che è diventato (L’ora del lupo) a un bambino sopravvissuto, la cui grazia consente all’adulto di riconquistare la sua integrità (Fanny e Alexander).

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Contrariamente alle apparenze, è la vita che viene celebrata nel cinema di Ingmar Bergman.

Egli amava ricordare un episodio della vita di Johan Sebastian Bach: il maestro era tornato da un viaggio, durante la sua assenza erano morti la moglie e due figli ed egli scrisse sul diario: «buon Dio, fa che io non perda la mia gioia».

«Per tutta la mia vita cosciente ho vissuto con quella che Bach chiamava la sua gioia. Mi ha salvato durante crisi e periodi di infelicità. È stata efficace e fedele come il mio cuore. A volte soggiogante e difficile da governare, mai però ostile e distruttiva. Bach chiamava gioia questa condizione. Una gioia che viene da Dio. Buon Dio, fa che io non perda la mia gioia»[4]

Cira Pinto

1 Ingmar Bergman, Lanterna magica, Garzanti, 1987, pag. 125.

2 Ingmar Bergman, Lanterna magica, op. cit., pag. 125.

3Per ottenerlo, all’età di 12 anni, cede al fratello maggiore tutta la sua collezione di soldatini.

4 Ingmar Bergman, Lanterna magica, pag. 45.