Come si scriveva un libro a Roma? L’editoria antica

L’aspetto che doveva assumere un libro a Roma è per noi abbastanza chiaro grazie ai numerosi ritrovamenti di papiri in Egitto e alla scoperta straordinaria di circa mille rotoli appartenuti alla biblioteca della Villa dei Papiri di Ercolano. Tuttavia, se il “risultato” è conosciuto, come si arrivava a quel risultato? Come si scriveva un libro a Roma?

Il primo passo: le adnotationes

Il primo passo per scrivere un’opera era leggere tante altre opere di autori diversi. La letteratura latina, infatti, nasce già erudita, in quanto sin dai primissimi secoli aveva alle sue spalle la letteratura greca ma soprattutto quella ellenistica.

Ogni autore latino, dunque, era solito “prendere appunti” a partire dalle letture che faceva. Quest’uso divenne massiccio nella prima età imperiale, quando si diffuse a Roma una sorta di curiosità erudita, a cui gli autori rispondevano con opere catalogiche e “universali”. Tra questi, Plinio il Vecchio, autore dell’immensa Naturalis Historia, era famoso proprio perché, secondo le parole del nipote, “era solito affermare che non c’era nessun libro così cattivo che non riuscisse utile in qualche parte”.

Le adnotationes ricavate dalle letture erano trascritte su pergamena, su tavolette di cera o, a quanto ci dice Plinio il Giovane, su papiri opistografi, cioè scritti davanti e dietro.

Le copie “provvisorie”

I papiri opistografi dovevano rappresentare, per gli antichi, le “copie provvisorie” delle opere, cioè “bozze” non destinate ancora alla pubblicazione.

libro a Roma
Il P.Herc. 1021

Di queste copie provvisorie abbiamo numerosi esempi pervenutici dalla biblioteca della Villa dei Papiri di Ercolano. Qui lavorò Filodemo di Gadara, filosofo e scrittore, ed è per questo che molti dei papiri carbonizzati riportano sue opere, sopravvissute talvolta sia nella copia provvisoria che in quella definitiva.

L’esemplare probabilmente più conosciuto è un rotolo dell’opera “Rassegna dei filosofi”, il P.Herc. 1021, che presenta un aspetto molto particolare: è scritto davanti e dietro, presenta una scrittura veloce, ha note di rimando, cancellature, parole in interlinea, ecc. L’impressione di “bozza” che ne risulta è confermata dallo stesso scriba, il quale, alla fine del rotolo, segnala con l’espressione “upomnematikòn” che quella era la copia provvisoria, per differenziarla dalla definitiva che circolò ufficialmente.

Un’altra notizia che abbiamo sulle “bozze” di un libro a Roma ci viene dall’Ars Poetica di Orazio, il quale, ergendosi a maestro di poetica, dà consigli su come scrivere un libro:

“Se, infine, un giorno, tu scriverai qualcosa, sottomettilo all’orecchio critico di Mecio, a quello di tuo padre e al mio e conservalo per nove anni ben racchiuso nei quadernetti di pergamena”

Orazio raccomanda a un amico di riflettere bene prima di pubblicare un’opera: è più prudente conservarla nelle membranae, i quadernetti di pergamena da cui nascerà il codex, così da correggerla e modificarla a piacimento.

Il diritto d’autore

Bel rischio, infatti, era far circolare un’opera senza esserne completamente sicuri. Ancora Orazio nell’Ars Poetica avverte che ciò che è pubblicato deve esser ritenuto ormai fuori controllo dell’autore:

“Tu potrai distruggere quello che non hai reso pubblico; ma la parola proferita non può tornare indietro”

Sappiamo che addirittura Cicerone, nella sua prolissità, si fece “scappare” un errore nella pubblicazione della Pro Ligario. Uno degli schiavi di Attico, l’”editore” di Cicerone, aveva fatto notare all’oratore che Lucio Corfidio, nominato nell’orazione, era morto poco prima e perciò non poteva essere presente al processo; Cicerone, così, scrive ad Attico chiedendogli di rimediare all’errore, nella speranza di reperire le copie circolate per modificarle. Tutt’oggi, però, noi continuiamo a leggere il nome di Lucio Corfidio nella Pro Ligario: piena dimostrazione che, quando un libro a Roma aveva iniziato a circolare, l’autore non poteva più esercitarvi il suo controllo, perché all’epoca non esisteva il diritto d’autore.

Le seconde edizioni

Un autore, però, aveva sempre a disposizione una strada percorribile, anche dopo che la sua opera aveva già circolato ampiamente: la pubblicazione di una nuova edizione.

Di seconde edizioni delle opere greche e latine abbiamo numerosissime testimonianze; anzi, spesso i poemi e i testi in prosa che ci sono giunti sono nella loro seconda edizione, che ha cancellato dalla tradizione la prima.

Un esempio è ricavabile dalle parole di Ovidio in persona, il quale, dopo aver pubblicato probabilmente attorno al 20 a.C. una prima edizione degli Amores in cinque libri, tra l’1 a.C. e l’1 d.C. pensò a una nuova edizione in tre libri. I versi che aprono gli Amores, infatti, confermano questa notizia:

“Noi che una volta eravamo cinque libretti di Nasone, siamo tre; l’autore ha preferito questa forma alla precedente”

Le varianti d’autore

Un problema decisamente più spinoso riguarda le varianti d’autore, concetto tra l’altro tutto moderno. È difficile anche solo riconoscere i passi che, invece di interpolazioni successive, potrebbero rappresentare in opere greche e latine varianti d’autore.

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Un codex

Un esempio che potrebbe essere preso in considerazione, con la dovuta cautela, riguarda ancora una volta Ovidio, con le sue Metamorfosi. Ovidio, nelle opere dell’esilio, fa spesso riferimento al poema come a un’opera incompiuta, notizia che da sempre ha destato i dubbi degli studiosi poiché, a differenza dell’Eneide che ha ancora i tibicines – i versi “riempitivi” -, le Metamorfosi sembrano aver ricevuto l’ultima mano.

C’è tuttavia un passo, anche piuttosto conosciuto, che rappresenta un vero e proprio mistero della filologia. Nell’episodio di Apollo e Dafne, quando la ninfa è stata quasi afferrata dal dio, vengono riportate dai manoscritti due sue preghiere: una alla madre e una al padre. Essendo i versi tra di loro quasi identici, è chiaro che la “convivenza” delle due preghiere è impossibile: nel testo originale doveva essercene solo una.

La soluzione più semplice consiste nel considerare la preghiera meno “verosimile” (in questo caso quella alla madre) come un’interpolazione successiva, ma il problema è che i versi sembrano degli autentici versi ovidiani. Come spiegare tutto ciò? Probabilmente proprio con l’idea di una variante d’autore: Ovidio, colpito nell’8 d.C. dalla relegatio di Augusto, non aveva finito di perfezionare l’episodio di Apollo e Dafne, che così ci è giunto con entrambe le varianti della preghiera della ninfa.

Il libro a Roma

La stesura e la pubblicazione di un libro a Roma, come si è visto, rappresentano un campo d’indagine ancora tutto da scoprire, ma sempre più chiaro per noi ogniqualvolta un nuovo rotolo viene scoperto o letto per la prima volta.

Quel che ne risulta è che l’editoria, se così si può definire, del mondo antico era un sistema non ben definito, che non assicurava all’autore la sopravvivenza della sua opera, almeno nella forma che egli vi aveva dato. Risultano così assolutamente comprensibili le parole di tanti poeti latini che paragonavano la scrittura, con tutti i suoi rischi e pericoli, ad un vero e proprio “viaggio in mare”: un viaggio che dura per noi da oltre duemila anni.

Alessia Amante

Bibliografia:

T. Dorandi, “Nell’officina dei classici”