Sartù di riso: storia e delizia di un piatto napoletano

Il sartù di riso è uno dei grandi classici della tradizione gastronomica napoletana. Eppure, prima di affermarsi come il piatto sontuoso e celebre che è oggi, il sartù ha dovuto vincere la diffidenza contro uno dei suoi principali ingredienti: il riso.

Il riso a Napoli: la storia

il riso, introdotto nelle cucine napoletane durante il regno Aragonese, veniva utilizzato in qualità coadiuvante nella cura delle malattie gastrointestinali, così come da indicazioni della Scuola Medica Salernitana.

Questo cereale, noto per le sue capacità astringenti, veniva consumato prevalentemente in bianco e numerosi erano i consigli di applicazione anche dell’acqua di cottura in medicina.

Fu soltanto con l’arrivo dei Monzù, i cuochi francesi (Monzù sta per storpiatura della parola Monsieur), che il riso poté accomodarsi sulle tavole napoletane e diventare quella meraviglia della nostra gastronomia che è il sartù.

I monzù giunsero in città al seguito di Maria Carolina d’Austria che aveva sposato, nel 1768, Ferdinanado IV di Borbone. La cucina che la regina trovò  fu fortemente raffinata e ammodernata dai suoi cuochi, che introdussero perfino dei dolci (come il babà) e contaminarono la cucina dell’epoca con le salse d’accompagnamento che ancora oggi sono tra le glorie della gastronomia d’Oltralpe.

Perfino ne “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” (1891), Pellegrino Artusi dedica molta attenzione alle salse, in particolare alla preparazione di quella che lui definisce balsamella, ovvero “salsa equivalente alla béchamel dei Francesi, se non che quella è più complicata”.

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Sourtout le sartù

A Napoli i Monzù si trovarono di fronte una vastità di materie prime eccellenti e lavorano, aggiungendo il burro di norma estraneo alla cucina partenopea, riscuotendo un gran successo.  Molti vogliono che la parola sartù, la cui etimologia per la verità resta sconosciuta, derivi dal francese Sur tout, come a indicare il primato del piatto sugli altri.

Il sartù del cuoco Galante ai giorni nostri

Presto diffusosi dalla corte alle tavole borghesi, il sartù di riso entra di diritto nell’edizione della “Cucina Teorico Pratica” scritta da Ippolito Cavalcanti nel 1837. Ma prima di lui già, Vincenzo Corrado nel 1793 ne attestava una ricetta che qui riportiamo:

Cotto il Riso con brodo, e poi freddato, si legherà con parmegiano grattugiato, gialli di uova, e qualche chiara, e se ne formerà una pasta, la quale tirata come una grossa sfoglia, entro una casseruola unta di strutto, e polverata di pan grattato, per ripieno di essa vi si metterà un ragù di animelle, condito con tartufi, prugnoli, ed erbe aromatiche; si coprirà con la sudetta pasta di Riso, e si farà cuocere al forno. Cotto si servirà caldo il Sortù.

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Grande protagonista di questa ricetta è il sugo di ragù. Anche “ragù” è una parola di origine francese e viene da Ragout, che indica una tipologia di piatti a base di carne e verdura la cui cottura è lenta e prolungata.

Scopriamo dunque che il Sartù e ragù sono figli di uno stesso matrimonio: quello tra la vivace e corposa cucina napoletana e la più raffinata tradizione d’Oltralpe.

Marilisa Moccia

Bibliografia:

  • A. Pellegrino, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, Introduzione e note di Pietro Camoresi, Torino, Einaudi, 1970.
  • Cavalcanti, Ippolito, Cucina teorico pratica, Napoli, Palma, 1839.
  • Glejeses, Vittorio, A Napoli si mangia così, Napoli, Società Editrice Napoletana, 1977.