Xavier Dolan è un regista canadese giovanissimo (20 marzo 1989) su cui tutto il mondo del cinema ha puntato gli occhi quando, nel 2014, si è aggiundicato il Premio della Giuria del Festival di Cannes. Due anni più tardi, all’età di 26 anni e con ben cinque film all’attivo, ha visto il Grand Prix del medesimo Festival con il suo sesto lungometraggio, “Juste la fin du monde”.
“Mommy”, d’altro canto, è incentrato su uno strano rapporto a tre fra una madre che lo è diventata per caso, ma che tenta di esserlo, seppur debolmente e in modo maldestro; un figlio affetto da disturbo dell’attenzione e iper-attività che ama follemente sua madre, ma è spesso violento; una vicina di casa balbuziente reduce probabilmente da un crollo nervoso che in quel duo chiassoso trova una via di guarigione.
Ai personaggi di Xavier Dolan non ci si affeziona facilmente, ma alla sua regia empatica e appassionata sì. Per quanto le vicende portate in scena siano ai limiti dell’assurdo, in una miscela di comico grottesco e triste patetismo, i dialoghi sono reali, e i contesti sono casalinghi, disordinati e familiari come può esserlo camera vostra.
Una delle scene emblematiche con cui più di una volta “Mommy” è stato presentato, è quella di Steve, il protagonista, che sposta le bande nere ai lati dell’inquadratura precedentemente in rapporto 1:1, e improvvisamente diventata più larga. Oltre ad essere una metafora metacinematografica e un abbattimento della quarta parete, è anche l’esemplificazione in immagini di una seconda tematica cara a Xavier Dolan, anche se meno evidente: il senso di soffocamento.
Il senso di soffocamento si esprime in tanti altri modi. Ad esempio, in “J’ai tué ma mère” è tramesso dalla tappezzeria pesante che imbottisce ogni angolo della casa.
Oppure, in “Tom à la ferme” (2013) (“Tom alla fattoria”), i primissimi piani trasmettono un senso di caldo soffocante e inquietudine molto efficace, in netto (e voluto, naturalmente) contrasto con le parole che vengono pronunciate. Pellicola differente dalle altre, “Tom à la ferme” mette in campo un gioco psicologico intrigante e sottile, senza banali rivelazioni da polpettone romantico, ma anzi giocando sempre in zona grigia. Guardarlo significa mettersi in gioco, sottoporsi a un’atmosfera di pazzia insensata e affezionarcisi, anzi, innamorarsene, come fa il protagonista Tom.
In verità, si può dire che il vero tema che sta a cuore di Xavier Dolan sia l’amore in sé, puro e nitido. Così, se in “Les Amours imaginaires” (2010) il regista pare domandarsi cosa spinga davvero ad innamorarsi – la suggestione dell’attimo, un senso di competizione, oppure la speranza di non ricevere un rifiuto? – in “Laurence Anyways” (2012) è proprio il titolo
C’è poi da sottolineare un’aperta denuncia all’omofobia di cui pare aver fatto diretta esperienza lo stesso Xavier Dolan, a più riprese inserita in quasi tutti i suoi lavori. In “Tom à la ferme” l’aperta violenza sfocia in un contatto fisico che quasi dà piacere sessuale a chi lo perpetra; in “Les Amours imaginaires” il rifiuto avviene con una secca frase di disprezzo verso l’omosessualità; e ovviamente in “Laurence Anyways” si mostra ogni tipo di vessazione che un transessuale può subire.
È solo in “Mommy” che la tematica viene abbandonata. Dove si sta dirigendo, allora, Xavier Dolan?
Chiara Orefice
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